domenica 25 novembre 2012

Sotto la quercia

 Un vagito ruppe improvviso il silenzio. Pochi attimi e tacque. Caterina la Caprara1 si fermò sulla strada che delimitava un pendio di boscaglia degradante alle rive del fiume Aso e stette ad ascoltare, ma si udiva solo il gorgoglio delle acque. Sarà stato il grido di qualche animaletto, pensò la donna riavviandosi, ma ecco che il vagito tornò alto spegnendosi immediatamente e lei lasciò cadere dalle spalle la fascina di legna e s’inoltrò nella sterpaglia da cui le sembrava fosse venuto. Non cercò molto che riudì il pianto dietro di lei: si girò e tra gli arbusti sotto una quercia al margine della strada, vide un fagotto da cui emergeva il visetto di un neonato, gli occhi aperti e disperati. Oh, Gesù! Esclamò Caterina sollevandolo subito e, tenendolo in braccio, cominciò a correre verso casa sua situata in una frazione di campagna appartenente a un Comune del territorio dei monti Sibillini. La creatura teneva la bocca accostata al petto della donna che pensava fosse sfinita per la fame e anche per il freddo ancora notevole in quel luogo, nonostante la bella giornata di marzo.
Correndo, in poco tempo arrivò a casa.

Il marito stava seduto accanto al focolare acceso e vedendola affannata e con quel fagotto strano tra le braccia, che è successo? Chiese, preoccupato.
Poi, poi ti dirò! E, appoggiandola su una panca, liberò la creatura dai panni: oh, guarda, Brando, è una femminuccia! Tutta imbrattata, figlietta! Che delinquenti! Metti un catino d’acqua sul fuoco, la devo lavare! E sciogli un po’ di zucchero in un bicchiere d’acqua, è sfinita dalla fame!
L’uomo eseguì. Lei immerse ripetutamente un pezzettino di tovagliolo nell’acqua zuccherata portandolo alla bocca della neonata che lo succhiò avidamente. Poi la lavò, l’asciugò con un telo scaldato davanti al fuoco, le mise un pannolino, l’avvolse in un lino e in uno scialle di lana e disse al marito: vai a prendere la bianca, portala qui. L’uomo la guardò come stralunato e uscì senza dire una parola tornando con una capra bianca. Come sempre prima della mungitura, Caterina accarezzò la capra, le diede una zolletta di zucchero e, accoccolandosi dietro di essa, vi situò sotto la bambina tenendola su un braccio e, sostenendole con l’altra mano la testina lievemente sollevata, le accostò le labbra a un capezzolo. Il miracolo avvenne: la neonata cominciò a succhiare e non voleva più mollare, ma la donna decise che per il momento doveva bastare e la staccò, la sollevò, aspettò che facesse il ruttino e la mise a letto sedendosi accanto. Rimase a guardarla finché la vide dormire e poi pianse di commozione.
Quando, finalmente, la moglie gli raccontò tutto, Brando disse: non possiamo tenerla con noi, vado a parlare con i carabinieri.
No, stai buono, la porterebbero in un asilo per bambini abbandonati.
E allora?
Allora la teniamo noi.
E com’è possibile?
Domani andrò a parlare con il parroco, ci conosce, sa che siamo gente onesta, ci penserà lui a farcela affidare. Porterò pure la bambina per farla battezzare.
E che diciamo ai nostri figli?
Gli diciamo che la provvidenza ha scelto noi per salvare questa creatura e che ci aiutino a crescerla… Ora però corri alla farmacia e compra un biberon e del latte in polvere, ma le daremo anche quello di capra, mi sa che le è piaciuto. Passa da casa di nostra figlia, dille tutto e che mi porti degli indumenti se ne ha ancora di quelli della sua bambina, altrimenti che li compri.
Vorrei sapere chi è quella malafemmina che l’ha abbandonata! Disse l’uomo.
Sarà una povera sventurata, che Dio la perdoni!
Se fosse una di queste parti?
Mah! Una donna incinta, non sposata, avrebbe attirato l’attenzione di male lingue… Certo però che questa innocente non può essere nata troppo lontano da qui, magari sarà stato in qualcuna delle piccole frazioni sperdute tra i monti. Ah, ora che ci penso: sai che uscendo sulla strada dal sentiero del bosco è passato veloce in bicicletta un tizio che andava nella direzione del luogo dove poi ho trovato la bambina?
L’hai riconosciuto?
E come facevo, andava come il vento, e non m’importava di sapere chi fosse un uomo in bicicletta.
Se volevano liberarsene, perché non l’hanno portata all’asilo per bambini non voluti?
Forse per non correre il rischio di essere conosciuti, la ruota non c’è più.
L’indomani, Caterina si recò con la bambina dal parroco che la battezzò col nome di Bianca, come la capra che l’aveva allattata, e promise di recarsi quanto prima in città per dichiararla allo stato civile e parlare col magistrato dei minori.
Intanto, Caterina e Brando si curavano della creatura che non aveva riportato alcuna conseguenza della sofferenza patita ed era vivace, digeriva bene il latte artificiale e anche quello che prendeva tutte le mattine dalla capra con il metodo inventato da Caterina che non voleva toglierle il piacere di succhiare direttamente da un seno.

In quei giorni, nel secentesco palazzo comitale sito nel centro storico del medesimo comune, una giovanissima donna piangeva la sua bambina venuta alla luce per pochi istanti.
Lena il suo nome, e toccante la sua storia. Aveva perduto la madre in tenera età e vissuto col padre - il ricco commerciante di Ascoli Piceno Luciano Damiani - fino al suo matrimonio con Nicolò, figlio del conte Ladislao Di Girolamo. Conosceva il marito sin da quando erano in tenera età, poiché il proprio padre, nato e cresciuto in quel paese da bambino povero, era stato compagno di scuola e amico di giochi del contino Ladislao, unico figlio maschio e ultimo di tre sorelle. Amicizia consolidata nel tempo anche se dall’adolescenza in poi si vedevano soltanto nei giorni festivi, essendo Luciano andato a lavorare in campagna e in seguito in città.
Durante il periodo in cui il quattordicenne Luciano lavorava in campagna, era in corso la seconda guerra mondiale e lui conobbe un uomo che gli chiese di fargli da guida per indicargli le cascine dove poteva comprare polli conigli e viveri di ogni sorta da vendere al mercato nero in città e di aiutarlo nel trasporto delle merci. Gli dava una percentuale del guadagno, certamente meno di quanto gli sarebbe spettato, ma il ragazzo era contento di ciò che ricavava e soprattutto perché gli era venuta l’idea di dedicarsi, da più grande, al commercio.
E mettendo da parte lira su lira, alla fine della guerra cominciò una ricerca in Ascoli Piceno nell’intento di comprare un magazzino per impiantarvi un negozio di cereali, legumi e altri generi alimentari. Lo trovò senza difficoltà perché la città, essendo stata adoperata come zona di quarantena, non aveva subito le distruzioni dei bombardamenti. Era un locale ampio e con retrobottega in un edificio centrale degli anni venti del Novecento, i prezzi dei tempi non erano alle stelle e Luciano poté acquistarlo con i suoi risparmi di quattro anni del suo lavoro come cercatore di viveri nelle campagne della provincia. Ormai conosceva vari produttori di grani e legumi e strinse accordi, ottenendo fiducia quando non poteva pagare al momento della fornitura, onorando però il debito con tempestività appena poteva. E poteva abbastanza agevolmente poiché sapeva guadagnarsi la clientela, non negava un credito a nessuno, in quei tempi di magra ma anche di persone oneste. Nel giro di un paio di anni, fu in grado di pagare le fatture degli acquisti anche sul momento e cominciò ad arricchire il negozio di nuovi generi, i cosiddetti coloniali e altre specialità allora rare che attiravano una clientela di benestanti.
Guadagnava bene, tanto che a ventinove anni comprò l’appartamento al secondo piano del medesimo stabile e vi si trasferì in vista del proprio matrimonio con una bella ragazza della borghesia cittadina. Non proprio abbiente, per la verità, ma era innamorato e non gli importava la misura della dote, fidava sul suo lavoro. E volle un matrimonio con tutti i crismi, al quale invitò anche il suo nobile amico che ricambiò l’invito alle proprie nozze, avvenute il mese successivo.
E sia l’uno, sia l’altro, a pochissima distanza di tempo, divennero padri: Luciano della bambina Lena; il contino del maschietto Nicolò.
Dispiacque un po’ a Luciano non aver avuto un figlio maschio anche lui, ma c’era tempo per rifarsi. Purtroppo non ci fu per la perdita dell’amata moglie ammalatosi gravemente dopo pochi mesi dal parto. A Luciano sembrò mancargli la voglia di vivere e trascurava persino il lavoro, ma quando l’anziana domestica, una donna del paese amica di sua madre, lo richiamò alle sue responsabilità verso la bambina, reagì imponendosi lo scopo di dedicarsi al lavoro e alla figlia. Assunse una giovane bambinaia; era brava, ma accorgendosi che gli piaceva e lei era gentile con lui, per evitare tentazioni la licenziò: aveva giurato alla moglie morente che non avrebbe dato una matrigna alla loro figlia. Per la bambina, poteva bastare lui con l’aiuto della fedele domestica e della scuola materna, da poco istituita in città.
Ogni sera, finito il lavoro, saliva subito a casa per cenare con la figlia, ed era lui a metterla a letto, a raccontarle le leggende dei Sibillini e leggerle i libri di favole che comprava su consiglio delle maestre della scuola materna. Piacevano anche a lui, le favole, da bambino aveva letto Pinocchio e qualche altra storia grazie ai libri prestatogli dall’amico contino, e gli piaceva riscoprire il piacere della lettura perduto da quel tempo. E poiché quando Lena si addormentava, gli venivano in mente pensieri tristi, cominciò a trascorrere le serate leggendo libri che si faceva consigliare da un libraio. Il primo che comprò fu sulla storia di Ascoli e gli piacque tanto che formò una piccola biblioteca del genere.
Di tanto in tanto, nei giorni festivi, andava al paese con la bambina per trovare i propri genitori e l’amico d’infanzia, e ambedue conducevano i loro figlioletti a giocare nella campagna vicina. In quel periodo, per la morte del padre, l’amico aveva ereditato il titolo nobiliare, il palazzo e nient’altro: l’avito patrimonio, ridotto lungo il tempo sulla scia dei suoi ascendenti fannulloni che per mantenere il consueto tenore di vita continuavano ad alienare le terre, era definitivamente dileguato per la dote matrimoniale alle tre sorelle. Per fortuna del novello conte Ladislao, la moglie gli aveva portato in dote due fondi agricoli, modesti in verità, ma in tempi in cui i titoli nobiliari nudi e crudi cominciavano a essere considerati con noncuranza, una famiglia ricca non avrebbe dato in sposa la figliola a un nobile spiantato. Anche lui aveva avuto tutto quanto potesse desiderare un rampollo di rango, senza lavorare per la sicumera cui era stato abituato, e dopo l’amara sorpresa del niente rimasto, cercò di darsi coraggio decidendo di non mettere al mondo altri figlioli e di avviare agli studi l’unico perché acquisisse una professione. Ma già dalla scuola elementare il ragazzino Nicolò si rivelò disinteressato a qualsiasi apprendimento. Leggeva qualche fumetto, mai un libro, come gli bruciasse le mani e gli occhi; e l’unico sport che esercitava era la corsa in lungo consistente in un giro attorno al campetto della canonica. Superò la scuola media grazie al favore degli insegnati, torturati dalle preghiere del disperato conte, e poi fu mandato in un collegio di preti con annesso un istituto di scuola secondaria nella speranza che trovassero il modo di farlo applicare allo studio. Tornò a casa con un diploma confezionatogli dai religiosi in sette anziché in cinque anni di collegio che costarono la vendita di uno dei due fondi materni, comprato da Luciano a prezzo da lui stesso volontariamente accresciuto per venire incontro al suo amico.
Il conte, riportando a casa il figlio dopo il glorioso diploma, lungo il tragitto gli disse: ti ho già spiegato che ci sono rimasti soltanto il palazzo e un modesto fondo agricolo la cui rendita basta appena ai bisogni quotidiani, perciò adesso m’interesserò per trovarti un impiego, magari alle poste dove ho un amico tra i funzionari dirigenti.
A imprimere timbri tutto il giorno! Esclamò Nicolò con un sorriso sarcastico. Allora vai a fare il commesso dal farmacista che ne cerca uno, se no a zappare la terra degli altri! Hai capito?
Ho capito, vado in farmacia.
Ci andò e gli piacque perché spesso si recava in città con la moto messogli a disposizione dal farmacista per prelevare al deposito i farmaci mancanti e gironzolava un bel po’ per i bar, passava dal negozio dell’amico del padre per un salutino e in tali occasioni Luciano gli faceva dei doni: un pacchetto di sigarette per lui e alcune scatole di cacao e caffè da portare a casa. E lo faceva sempre con delicatezza, dicendo che si permetteva perché erano le qualità pregiate preferite dalla contessa.

Il conte si era un po’ rasserenato, quell’occupazione del figlio serviva almeno per le sue piccole spese personali e perché non bighellonasse a perdigiorno. Rasserenato soprattutto per la convinzione che l’unico modo per la garanzia dell’avvenire di Nicolò fosse un matrimonio di convenienza. E non ebbe dubbi nell’individuare come sua futura nuora la figlia del suo amico Luciano, notoriamente arricchito grazie ai guadagni dell’azienda commerciale, tanto lauti che aveva comprato due appartamenti in città dai quali ricavava le rendite delle pigioni e un paio di fondi agricoli oltre a quello venduto dalla contessa. Riteneva, il conte, fosse un progetto realizzabile perché sapeva che Luciano, pur producendo con il suo lavoro tanti soldi, non tendeva a diventare un Paperon de’ Paperoni, gli bastava accedere a una classe sociale superiore, certamente tramite un buon matrimonio della figlia. Che c’era di meglio, se non sposarla con un nobile? Lei avrebbe ereditato la sostanza materiale e lui il lustro del titolo comitale. E per giunta Lena era una bella ragazza e si capiva che piaceva a Nicolò, sebbene fosse un po’ intimidito dalla sua superiorità culturale. Anche Nicolò, considerava tra sé il conte, é un bel ragazzo e fine, veste con gusto e in definitiva un uomo è sempre un uomo e l’autorità è implicita nell’essere tale.
Rimanendogli però qualche dubbio sulla fattibilità del suo progetto, decise di saggiare il terreno prima di parlarne a Luciano, e consigliò al figlio di iniziare una corte discreta a Lena. Quello disse che avrebbe tentato, la ragazza gli piaceva sin da quando erano bambini, a parte il caratterino ostico...
Che vuoi dire, è una persona beneducata, cortese, come ti viene in mente il caratterino? Sbottò il padre.
Rifiutava sempre quando volevo che facessimo la corsa a chi arrivava per primo al tronco del noce!
E che centra? Sapeva che ti esercitavi al campetto della canonica e non voleva essere incastrata. Si rifiutava per intelligenza, non per cattivo carattere!
Ah, sì, è intelligente e anche colta, va all’università e sta sempre a studiare.
E chi ha impedito a te di studiare? Prenditela con te stesso! E, poi, ti senti cretino, forse?
Certo no!
E allora sappi che una donna intelligente si adatterà al marito per il bene della famiglia. E datti da fare, comportati in modo da dimostrarle il tuo interesse, ma con discrezione e senza fare il cascamorto!
Ci proverò papà, vedrai.
L’avesse visto quel figlio! Tutti i pomeriggi di sabato si recava al negozio del padre di Lena sapendo che era il giorno da lei dedicato a preparare la nota dei prodotti terminati. Arrivava azzimato come un damerino, si fermava un po’ nel negozio a scambiare qualche parola con Luciano e con i due commessi che gli davano poco conto e diceva: vedo che avete da fare e non voglio disturbarvi, passo un attimo nell’ufficio per un salutino a Lena. E si accostava alla porta semiaperta, bussava fievolmente, metteva la testa tra la fessura, sfoderava un bel sorriso e ciao, Lena, come va?
Bene, e tu?
Stanco morto! In quella farmacia lavoro come un mulo!
E lei: siediti, riposati.
Oh, grazie. Si sedeva fissandola muto per un po’. Poi guardava i poster della città affissi ai muri lodandone la bellezza e facendo gli occhi dolci, diceva: ti ricordi come ti facevo disperare quando giocavamo insieme?
Ma no… facevi solo qualche capriccio.
Talvolta, pur sapendo che lei non fumava, le chiedeva: vuoi una sigaretta?
Grazie, no. Fuma pure.
E lui: non ti voglio affumicare, vado fuori. Usciva e dopo aver fumato, tornava ad affacciare la testa nella fessura della porta: ciao Lena, corro al lavoro, ci vedremo.
Tornato a casa trionfante, diceva al padre: sono stato a chiacchierare con Lena per più di un’ora. Credo ci stia!
Bene, non mollare.
Lena non aveva antipatia per Nicolò e gli voleva anche un po’ di bene, ma fingeva di non accorgersi della sua attenzione perché lo riteneva immaturo e fannullone, come lo definiva suo padre compatendo il conte. Perciò pensava non valesse la pena parlarne, avrebbe tenuto Nicolò a distanza e basta. Luciano, però, costatata la ripetizione rituale delle comparse del giovane, ne colse il significato e immaginò ci fosse lo zampino del conte. Con piacere, poiché le sue idee in merito coincidevano, senza che lo sapesse, con quelle dell’amico: Lena, con la dote che avrebbe portato, l’eredità che avrebbe avuto, la cultura acquisita, poteva fare un ottimo matrimonio, perlomeno con un professionista, e questo l’avrebbe elevata di ceto, sarebbe diventata una signora borghese. Però… però sarebbe potuta diventare contessa! Certo, Nicolò era un fannullone come tutti i nobili e, tranne il palazzo e quell’unica proprietà della madre, non avrebbe ereditato il becco di un quattrino. Li aveva lei però, i quattrini, e abbastanza, non era necessario averne all’infinito! Unire la ricchezza di Lena e il titolo nobiliare di Nicolò poteva essere un buon affare. Così Luciano terminava il suo ragionamento e aspettava che il conte gli facesse la proposta prima di parlarne alla figlia.

Lena era del tutto ignara di quanto passava per la testa del padre e trascorreva il tempo tra lo studio, le lezioni all’università, il periodico aiuto settimanale al negozio, la collaborazione serale con il padre nella chiusura dei conti. Unici svaghi il cinema e le gite domenicali con le amiche con l’auto regalatale dal padre. Era una ragazza serena e anche allegra, eccetto i momenti di malinconia dovuti alla mancanza della madre che non poteva ricordare e ne conosceva la fisionomia, simile alla propria, soltanto per la foto del giorno delle nozze. All’amore pensava vagamente come a un evento futuro, era noncurante verso i corteggiatori che non mancavano, ma nessuno ancora l’aveva emozionata.
Un giorno, mentre scriveva una richiesta di fornitura nell’ufficio della ditta, percepì uno sguardo su di sé, alzò gli occhi e incontrò quelli di Cecco, uno dei due giovani commessi del negozio, che la guardava imbambolato: belli i suoi occhi splendenti di blu intenso come di zaffiro. Si guardarono per un attimo, poi Cecco fece un sorriso e uscì con un cenno di saluto. Lei si portò una mano a carezzarsi il collo, come sentisse quello sguardo posato lì, e rimase ferma e sorridente per un po’, poi terminò la lettera, ne scrisse altre. All’ora di chiusura per la pausa pomeridiana, poiché il padre era fuori città e lei non aveva voglia di salire a casa, si preparò un panino imbottito e se ne andò in giro. Arrivata al ponte detto del diavolo, s’inoltrò per un tratto e, come faceva di solito, sostò a guardare nel torrente sottostante le piccole trote guizzanti dietro le giravolte della madre. Quel giorno, però, la scena che la prendeva era interiore: il momento degli incroci di sguardi tra lei e Cecco che riviveva con un’inquietudine nuova e bella. Cercava di capire ciò che le succedeva, quando udì dei passi dietro di lei, si voltò ed ecco Cecco che si ferma e dice: è la strada per casa mia. E lei, come riavendosi dalla sorpresa, esclama ah, sei tu!
Egli, come gli fosse richiesto, precisa che casa sua è in provincia, qui abita in una stanza a pensione nel quartiere dopo il ponte e gli piace attraversarlo ogni giorno perché è bello. E poi, con un sorriso quasi saputo: è molto antico, vero? Mi hanno detto che c’è una leggenda che racconta perché è chiamato Ponte del diavolo. Sì, e anche il perché dell’altro nome, Ponte di Cecco, riferito a Cecco d’Ascoli, l’architetto che l’ha costruito in una sola notte con l’aiuto del diavolo…
In una notte, un ponte così! E sì che ci voleva il diavolo… ma chi era quell’amico del diavolo che si chiamava come me?
Era un filosofo, astrologo e anche alchimista, fu accusato dall’inquisizione di eresia e finì bruciato vivo sul rogo.
Che significa alchimista?
Si chiamavano così gli antichi filosofi, astronomi, scienziati e medici empirici che tendevano a conquistare la conoscenza assoluta della realtà materiale e di tutte le attività della mente per raggiungere, mediante un processo di trasformazione interiore, la perfezione della personalità. Sperimentavano rimedi atti a curare le malattie e tecniche per trasformare i metalli comuni in oro, pensando derivasse dalla trasformazione che tali metalli subivano a contatto con il calore e l’umido delle profondità della terra. Pertanto facevano esperimenti mescolandoli a liquidi di sostanze varie mettendoli sul fuoco, e talvolta tutto saltava in aria! Così nel tempo intuirono che l’oro nasce in natura allo stato puro e per essi divenne un simbolo di perfezione.
Oddio! Non ci ho capito niente! Esclama Cecco, portandosi una mano alla fronte. Mi perdoni, sono ignorante, ho preso la licenza media ma queste cose lì non si studiano… Ti presterò un libro scritto da un medico e filosofo del 1500 che spiega tutti i segreti alchemici ed è stato un precursore della medicina moderna. Si chiama Paracelso. Se vuoi, leggilo, penso che ti piacerà.
Sì, ma lei mi spiegherà le cose che non capirò?
Certo, ci proverò, ma non darmi del lei, per favore, sono una tua coetanea!
Con piacere, ma dove potremo parlare di queste cose? In negozio non è certo possibile!
Ci vedremo di domenica, la mattina intorno alle dieci, qui vicino, al bar accanto al parco del forte Malatesta…
Grazie, grazie per le cose belle che mi hai raccontato, ora devo scappare per aprire il negozio, si è fatto tardi!
Andò via svelto, Lena si avviò a passi lenti, pensando con emozione alla prospettiva di trascorrere alcune mattine parlando con quel ragazzo desideroso di apprendere.
L’indomani passò dal negozio, porse a Cecco l’opera di Paracelso e la domenica successiva s’incontrarono. Il giovane aveva letto tutte le notti fino alle ore piccole e seguendo gli appunti segnati su un quaderno, chiedeva spiegazioni o faceva commenti pertinenti e Lena, notando con piacere la chiarezza con cui si esprimeva, accontentava la sua ansia di conoscenza.
Da quella domenica, lei divenne per Cecco “colei che mi dona la conoscenza”, così le diceva lui che, sempre più entusiasta, dichiarava di sentirsi riconoscente a lei come Paracelso alle donne sapienti che avevano contribuito alla formazione del suo sapere medico.
Un mattino, appena seduti, aprì il libro e lesse un passo: “Colui che non sa niente, non ama niente.
Colui che non fa niente, non capisce niente.
Colui che non capisce niente è spregevole, ma chi capisce ama, vede, osserva. La conoscenza è congiunta all'amore, e chiunque crede che tutti i frutti maturino contemporaneamente, come le fragole, non sa nulla dell'uva”.
Spero di capire almeno quanto basta per non essere spregevole, per sapere amare! E così dicendo Cecco arrossì e abbassò lo sguardo. Lena sentì il proprio cuore accelerare i battiti.

Erano stati così felici i loro incontri domenicali che, quando esaurirono i commenti su Paracelso, decisero di continuare a vedersi conversando su altri argomenti. Lena era libera tutte le domeniche poiché da qualche tempo il padre trascorreva fuori la fine settimana, essendosi innamorato di una vedova di quarantacinque anni residente provincia e, ora che la figlia era cresciuta e autonoma, si sentiva libero di vivere una storia d’amore.
Gli argomenti delle nuove conversazioni i ragazzi li trovavano facilmente, magari cogliendo l’occasione da un evento fortuito. Come il mattino in cui, nel parco dei loro incontri, osservando un picchio che imputava colpi di becco al tronco di un albero, Cecco chiese: perché il picchio è rappresentato nello stemma della nostra Regione?
Per la leggenda riguardante le sue origini, per cui noi siamo chiamati anche Piceni. Ti presterò il libro che la racconta.
Sì, grazie, lo leggerò volentieri, ma ora comincia a raccontarla tu, per favore.
Sedettero su una panchina all’ombra dell’albero sul cui tronco incideva il picchio e Lena iniziò:
La denominazione Piceni si trova in opere di storici e scrittori antichi che risalgono al secondo secolo a. C. Significa quelli del picchio, in latino picus, da cui il volgare piceni, appellativo usato dai romani per indicare i gruppi di Sabini che intorno al nono secolo a. C. migrarono nel territorio delle Marche odierne.
I Sabini? Quelli cui i romani rubarono le donne per popolare il loro territorio?
Sì, è una leggenda ma forse c’è qualcosa di vero perché in seguito alla fondazione della città la sua popolazione si formò con la fusione tra Romani e Sabini. I Sabini erano una delle antichissime genti stanziate fin da circa trentamila anni a.C. in un’area situata tra le regioni oggi comprendenti il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo, come testimoniano i resti d’insediamenti umani e di attrezzi in selce rinvenuti negli scavi archeologici della zona e databili in quell’epoca. Secondo le antiche fonti, i nomi Sabina e Sabini derivano da Saba, il presunto progenitore di quelle genti.
Una popolazione per allora numerosa, formata da tribù che nel tempo si diffusero in vari territori dell’Italia centrale creando nuovi insediamenti o fondendosi con altri già esistenti. Per lo più erano gruppi di giovani non più sostenibili a carico delle tribù, che migravano annualmente in nuove terre, nel periodo detto della “primavera sacra”.
Vari scrittori antichi ci hanno tramandato notizie sui costumi di questo popolo, del quale, ad es., Virgilio dichiara che “nessun altro degli antichi li eguagliò in giustizia, probità, amore per la patria, frugalità e pudore”; e Orazio scrive che le donne sabine erano considerate un modello di onestà e prudenza. Altri autori testimoniano che i Sabini erano abili agricoltori, producevano cereali e in particolar modo curavano la viticoltura, l'olivicoltura e qualche allevamento, tra cui quello dei tordi molto apprezzati dal mercato romano. Come altri popoli primitivi adoravano divinità, le principali erano Vacuna e Feronia, l’una dea dei campi e della natura e l’altra della fertilità. Credevano anche che alcuni animali fossero sacri.
Secondo una narrazione tramandatasi oralmente per lunghi secoli e poi raccolta da scrittori dell’antico mondo greco e latino, intorno al nono secolo a. C., coincidente con l’età del ferro, a un gruppo di giovani sabini in cammino verso terre confinanti apparve un picchio che li precedette come a guidarli in una direzione. Giunti sulle basse pendici del monte Conero, il picchio si posò sul loro stendardo rimanendo immobile, ed essi pensarono fosse un’entità sacra che gli indicava così d’essere giunti nel luogo loro destinato dalla divinità: vi si fermarono e assunsero il picchio come loro idolo.
Era un piccolo abitato esistente da circa quattrocento anni, fondato da esuli greci di Siracusa fuggiti dalla tirannia di Dionigi, scelto per l’insenatura marina riparata dal promontorio a forma di gomito, e perciò lo chiamarono Ankon, dal nome greco. I nuovi arrivati si mescolarono pacificamente con i precedenti abitatori, e intanto altri gruppi sabini continuavano a spargersi per i territori oggi marchigiani nei quali, come si evince dagli scavi archeologici, è certo vi fossero presenze umane già dell’età della pietra: abitatori delle grotte, in cui sono stati trovati resti di braci e ceneri, erano cacciatori e raccoglitori dei frutti spontanei della terra. All’arrivo dei Sabini, però, quei cavernicoli erano già diventati coltivatori allevatori pescatori artigiani, e scambiavano merci con altre zone; ma si trattava di pochi individui, presto fusi con gli immigrati sempre più numerosi che diedero impulso a tutte le attività, essendo abili da moltissimo tempo in tutti i settori della produzione e negli scambi commerciali non solo con l’Etruria e Roma, ma anche con i greci e altri popoli d’oltremare.
In pochi secoli, trasformarono piccoli agglomerati in importanti centri e ne fondarono nuovi, come Novilara (nei pressi di Pesaro), Ancona, Belmonte; ma Ascoli fu l’epicentro e mantiene tutt’oggi la denominazione ‘Piceno’.
Con il definitivo stanziamento dei Piceni, conclude Lena, la nostra regione divenne un’unità etnica e culturale, ma la sua storia era solo agli inizi… la troverai nel libro e dopo ne parleremo.
Sì, ma da quando e perché il nome fu mutato in Marche?
Dal millecinquecento tutte le zone al confine dell’impero di Carlo V furono denominate marche, dal tedesco mark.

Da quel mattino, per Lena e Cecco, il racconto del territorio diviene galeotto. Mentre ne seguono il filo, un sogno d’amore nasce e cresce nel loro animo, ma non ne parlano perché ambedue pensano che il padre di Lena si opporrà strenuamente alla sua realizzazione. L’espressione del loro sentimento passa solamente dall’incontro degli sguardi e da timidi sfioramenti delle mani. Lena, però, segretamente, va nutrendo la speranza che il padre, amandola tanto, riuscirà a vincere l’aspirazione che faccia un matrimonio importante e non si opporrà alla sua felicità.
Così vanno avanti per mesi, finché un giorno la situazione muta. È un sabato pomeriggio, nel negozio c’è calma, i clienti hanno esaurito le esigenze la mattina, Lena prepara le richieste per i fornitori e Cecco le sta davanti dettando la nota di ciò che manca. Luciano scende sbarbato di fresco, vestito elegantemente e dice alla figlia: allora tutto a posto? Posso andare?
Certo, porta i mie saluti a Palmira.
Sì, lo farò, a domani sera. Prima di varcare la porta, si gira e raccomanda all’altro commesso di lasciare tutto in ordine.
Lena e Cecco continuano il lavoro: lei seduta davanti alla macchina per scrivere, lui in piedi, accanto, tenendo in mano la lista. A un certo momento dice: è segnato un prodotto che credo ci sia ancora, aspetta un attimo che vado a controllare - e allunga il braccio per porgerle il foglio. Lei gli afferra la mano, lo attira a sé e lo abbraccia, lui la stringe forte e si baciano a lungo. Poi, fissandola intensamente, Cecco le dice: sono innamorato di te dal primo giorno che ti ho visto, ti amo immensamente, sento che tu mi ricambi, ma non c’è avvenire per il nostro amore. Tuo padre non consentirà che sua figlia sposi un commesso di negozio. Dobbiamo rimanere amici, vivere questo sentimento bello soltanto nell’anima!
Ha la voce rotta e il volto bagnato di lacrime, lei invece ha atteggiamento fermo, determinato: ho pensato anch’io così, ma ora ho deciso che non sacrificherò noi due per i pregiudizi di mio padre. Gli farò sospettare di noi e, conoscendolo, so che mi farà qualche domanda e allora gli dirò che ci amiamo e lo persuaderò. Per l’affetto che ha per me, non mi vorrà condannare all’infelicità… e se insiste a opporsi, peggio per lui, gli dico che ci sposeremo anche senza il suo consenso e faccia quello che crede, anche privarmi dell’eredità perché potremo vivere guadagnandoci la vita lavorando!
E tu faresti tutto questo, per vivere con me?
Certo, e sono sicura che tu mi voglia, anche se fossi povera.
Oh, Lena! Io non mi sono mai lamentato della mia condizione, ma sapessi quanto mi pesa adesso! Devo stare al mio posto.
No, è assurdo, lascia fare a me, persuaderò mio padre. Anche lui è innamorato e capirà, ho intuito che desidera sposare la sua amante e gli ho già detto che è giusto lo faccia assicurandogli di non esserne gelosa. Sto aspettando il momento giusto per parlargliene.
In quel momento entrò l’altro commesso a chiedere se poteva andar via poiché era ora di chiudere.
Lena gli disse di abbassare la serranda a metà, loro avrebbero finito il lavoro.
Il commesso salutò e uscì, loro tornarono ad abbracciarsi. Erano stretti così quando Lena sussurrò a Cecco: ti lascio la porta aperta, alle undici vieni da me. Cecco arrossì: e Maurina?
Non ti preoccupare, va a letto presto, dorme profondamente fino alle cinque del mattino ed è anche un po’ sorda.
Sei certa di volere che venga? Temo sia una cosa sbagliata!
Mi ami?
Sicuro!
Credi che ti ami anch’io?
Sì.
Allora non è una cosa sbagliata.

Fecero all’amore quella e altre notti sabatiche. Il lunedì successivo alla quarta, Luciano ebbe una visita dell’amico conte che gli chiese la mano di Lena per il figlio a suo dire innamorato pazzo della ragazza, ma aggiungendo: conosci la mia situazione economica, perciò decidi tu, non mi offenderò se rifiuti la proposta. E Luciano: stai tranquillo, accetto, ma Lena deve essere libera di decidere liberamente e non voglio pensi che l’iniziativa venga da noi. Perciò deve essere Nicolò a dichiararsi a lei.
Giusto, lo farà, assicurò il conte.
Nicolò, consigliato dal padre sul comportamento da tenere e contento della prospettiva di poter sposare Lena che gli piaceva veramente, si attenne alle istruzioni e continuò a corteggiarla con maggiore insistenza. La ragazza, però, non potendo concepire che il padre fosse contento che lei sposasse un fannullone e quindi non sospettando dell’accordo intercorso tra lui e il conte, decise di interrompere il proprio atteggiamento passivo e tagliare il filo senza lasciar passare altro tempo. E un pomeriggio, non appena il giovane arrivò a casa, dove ormai andava a trovarla in qualsiasi giorno della settimana, gli disse: Nicolò, sai che ti voglio bene sin da quando eravamo bambini, mi sei caro come amico, ma non posso accettare la tua corte perché non ti amo, sono innamorata di un altro.
Egli si levò di scatto avvampando, poi impallidì, di nuovo il suo viso divenne più rosso del fuoco e quasi gridando chiese: e chi è?
Non deve importarti, non sono tenuta a dirtelo.
No? E perché?
Perché è affar mio, non tuo.
È più bello di me? Più intelligente?
No, è un altro e basta. Niente di meno e niente di più.
Ah, qui sbagli: sicuramente qualcosa di meno avrà, il titolo nobiliare, ad esempio. A me non importa del titolo.
Dei soldi sì, vero?
Neanche, li ho io.
Allora non ha neanche i soldi e gli importano i tuoi!
Lena pronta gli rispose: la caccia ai soldi la fai tu e non me ne importerebbe se ti amassi, ma non è così. Se ti va, amici come prima, a me farebbe piacere che continuassimo a esserlo.
Nicolò ormai era terreo, si girò verso la porta, la raggiunse con due sgambate e uscì.
Lena rimase turbata perché le dispiaceva anche per il conte immaginando che conoscesse le intenzioni del figlio e temeva che si guastasse l’amicizia cui il padre teneva tanto, quindi pensò di raccontargli tutto subito, in modo di avvertirlo e avrebbe colto l’occasione di informarlo di amare Cecco pure a costo di un putiferio, ma manteneva la certezza di riuscire a convincerlo. Scese in negozio per chiedergli di salire un momento a casa, ma c’erano vari acquirenti serviti dall’altro commesso, il padre stava alla cassa e vedendola le disse: dammi il cambio, per favore, così aiuto a servire, è più di un’ora che Cecco è andato a fare una commissione e non è ancora tornato.
Lontano?
No, doveva portare un pacco regalo commissionato da un cliente a casa del dottor Sabatini, dieci minuti da qui con la bicicletta, e si è perduto per la strada!
Perduto per la strada! Parole che penetrarono come un chiodo nel cuore di Lena. Impallidì, gocce di sudore le imperlarono la fronte, le tremarono le gambe e per salire sulla pedana della cassa dovette tenersi al ripiano. Il padre se ne avvide e le chiese che c’è, stai male? Lei ebbe un soprassalto come si svegliasse da un incubo, respirò profondamente, si terse il sudore, disse niente, è passato. E per almeno mezz’ora stette ancora lì a denti stretti lanciando occhiate alla porta e finalmente, rimasta nel negozio una sola cliente, disse al padre: puoi tornare alla cassa così vado a vedere che è successo?
Non ti muovere, ci vado io.
Mentre si avviava alla porta entrò un vigile urbano, cliente del negozio: Signor Damiani, Cecco è stato investito da una macchina, è stato portato in ospedale con un’ambulanza, l’ho accompagnato io.
Come sta? Chiesero all’unisono padre e figlia, attoniti.
Non bene… stava attraversando la strada con il verde ed è arrivata a velocità un’auto guidata da un folle che, come non avesse visto il rosso, gli è piombato addosso… Cecco è saltato in aria, ricadendo a terra ha sbattuto forte la testa, povero ragazzo!
È grave? Chiese allarmato Luciamo, trattenendo tra le braccia Lena che, lasciata la cassa, gli si era aggrappata e non riusciva ad articolare verbo.
È morto, purtroppo!

Lena cadde in una profonda crisi depressiva, al padre disperato disse che lei amava Cecco e senza di lui non voleva più vivere, e il primo pensiero che passò per la mente di Luciano fu: meno male che ci ha pensato il conducente pazzo a levarlo di torno, altrimenti l’avrei buttato nel lago di Pilato!2 Tuttavia, non perdette tempo per aiutare la figlia e la affidò a una psicologa.
Dopo qualche settimana alla prostrazione psichica si aggiunsero disturbi fisici che la psicologa sospettò fossero sintomi di gravidanza. Provvide agli accertamenti del caso e non si sorprese che Lena, saputo l’esito positivo, le dicesse: è un dono lasciatomi da Cecco, la nostra creatura mi riporterà la sua presenza, e dal quel giorno cominciò a migliorare. Con le dovute precauzioni, la psicologa informò Luciano che sbottò: fino a questo punto, mi ha ingannato mia figlia!
Che c’entra l’inganno? Amava quel ragazzo e temeva che lei fosse contrario, aspettava il momento buono per confessarglielo… Pensi piuttosto che questo è un evento fortunato che la farà guarire dalla depressione.
Dopo avere ascoltato le argomentazioni della dottoressa, Luciano disse: va bene, è successo così, ma mia figlia ora mi deve dare retta. E le espose il piano che gli balenava in mente, pregandola di fare a tempo opportuno, se necessario, opera di persuasione con Lena perché lo accettasse.
Lei prenda l’iniziativa cui accenna e, se è realizzabile, io ne parlerò a Lena, ma non tenterò di coartare la sua volontà.
E se non accetta?
Non è la fine del mondo avere un figlio fuori dal matrimonio.
Già, un figlio senza padre, un bastardo!
Lei è un uomo intelligente, deve vincere questi pregiudizi. In quanto alla mancanza del padre, se non dovesse esserci un sostituto, più fare benissimo lei da padre al nipotino.
Vedremo, ma lei mi garantisce che Lena uscirà dalla depressione?
Ne sono certa, sta già meglio. Lei continui a starle vicino.
Luciano non perdette tempo. Si mise in macchina e andò a trovare il conte, gli raccontò tutto e poi gli disse: se tuo figlio tiene veramente a Lena e alla sua dote, la sposa subito, dichiarando d’essere il padre della creatura che lei aspetta. Così si sistema lui, Lena e l’innocente che nascerà. A questo punto porse al conte un foglio con l’elenco dei beni di cui avrebbe dotato Lena alla data del matrimonio: due fondi agricoli, una villetta a due piani consistente in quattro appartamenti in zona panoramica della città, un pacchetto di titoli di stato, più un sostanzioso conto corrente bancario che sarebbe stato intestato a Nicolò.
Era consapevole di star comprando un marito alla figlia, ma non si vergognava: riteneva fosse una necessità, e che in fondo si trattava di uno scambio perché Lena avrebbe guadagnato notevolmente in status sociale. Anche il conte fece il medesimo pensiero e gli parve una fortuna vendere tanto caro il figliolo buono a niente, grazie al titolo nobiliare.
Si guardarono fissamente e Luciano disse: se pensi che non sia un accordo possibile o se tuo foglio non acconsente, fa niente, noi saremo sempre amici fraterni.
Per me va bene, rispose il conte mettendogli una mano sulla spalla, parlerò a Nicolò e ti farò sapere.
E dovrei accollarmi il figlio di un altro, di uno per il quale lei mi ha rifiutato! Sbottò Nicolò.
Fai come vuoi, ma è bene ti metta in testa che non avrai l’occasione di accasarti in modo conveniente per assicurarti il futuro, sai che ho provato a chiedere per te la mano della figlia dell’avvocato Pacifici - molto meno benestante di Lena e per giunta brutta, come tu dicevi - e ne è venuto un rifiuto. Lena è bella, ricca, ti ha sempre voluto bene e anche se ha commesso una leggerezza, non ha fatto un torto a te perché non aveva impegni con te. Rifletti e dammi una risposta domattina.
Va bene, papà, mi hai persuaso.
Sia chiaro però che la devi rispettare, quella ragazza, non combinare guai, intesi?
Quali guai? E perché?

La psicologa, avuto l’incarico, parlò a Lena della disponibilità di Nicolò, avvertendola che il padre avrebbe rispettato l’eventuale decisione negativa ma Lena accettò senza batter ciglio: si sentiva colpevole verso il padre, responsabile verso la creatura che portava in grembo e grata a Nicolò anche se immaginava che lui accettava di accollarsi la paternità per la consistenza della dote che lei avrebbe portato.
Nel giro di pochi giorni, la contessa fece circolare tra le sue amiche la notizia che suo figlio e Lena si sarebbero sposati subito perché, fidanzati ancora non formalmente, avevano avuto fretta di amarsi e la ragazza era in attesa. Perciò nessuno si meravigliò delle nozze prive di fasto e d’invitati come volle Lena.
Gli sposi si stabilirono al primo piano del palazzo comitale tradizionalmente assegnato al primogenito il giorno delle nozze, dove avrebbe abitato con la famiglia finché fosse vissuto il proprio padre, e dopo, ereditando il titolo, sarebbe passato al piano nobile, il secondo. Perciò tutte le stanze, dalle quali erano passate generazioni di novelli sposi, erano arredate con mobili d’epoca, pregevoli ma piuttosto grevi. Questa, perlomeno, era l’impressione che suscitavano in Lena, ma le ampie vetrate le offrivano la vista sul paesaggio che dalle alture montane scende alle terre delle rive adriatiche in un susseguirsi di verdi colline e valli solcate dal lungo fiume Aso serpeggiante tra sponde di pioppi. Sperava che tanta bellezza lenisse nel tempo il dolore ancora cocente per la tragica perdita di Cecco e attendeva con ansia la nascita della creatura come dono da lui lasciatole. Nicolò si comportava bene, era attento, affettuoso, la mattina andava nella proprietà sulle pendici di una collina sottostante, facente parte della dote di Lena, per controllare i lavori per una piantagione di vigneto. Vedi? – diceva la contessa alla nuora - con la tua vicinanza Nicolò ha messo la testa a posto, e Lena apprezzava che lui occupasse utilmente il tempo.
Le doglie le arrivarono di notte: Nicolò avvisò la madre e corse a chiamare l’ostetrica. Il parto fu abbastanza travagliato, il cordone ombelicale si era attorcigliato al collo della creatura che nacque piuttosto cianotica, ma riuscì a respirare e pianse: era una bambina. Fu mostrata a Lena che alzò una mano per sfiorarle la testina e, mentre l’ostetrica continuava ad accudirla, la nonna portò la bambina di là, la bagnò, le mise gli indumenti preparati e l’adagiò nella culla. La bambina vagì ancora per un po’, poi si addormentò. Era l’alba e Nicolò pregò la madre di andare a riposare, accanto alla bambina sarebbe rimasto lui.
Finite le incombenze, la levatrice andò via, doveva visitare una paziente, sarebbe tornata più tardi. Lena, sfinita e ormai serena, si addormentò.

Erano circa le undici del mattino, Lena dormiva ancora e la contessa guardava dalla finestra il marito che andava avanti e indietro sul margine della piazza costeggiante la strada. A un tratto arrivò l’auto di Nicolò fermandosi a lato del conte che vi si avvicinò subito: scambiarono qualche parola e si avviarono al portone di casa. Nel medesimo tempo la contessa udì un lamento e si avvicinò al letto della nuora, le fece una carezza e quella chiese: posso vedere un momento la bambina? La donna, titubante, rispose: aspettiamo un po’, sta arrivando Nicolò è per le scale.
Seguito dal padre, Nicolò entrò, si avvicinò subito a dare un bacio a Lena e lei, notando la sua espressione sconvolta, chiese: Che c’è?
Lui si chinò, le prese dolcemente le guance tra le mani e, con le lacrime agli occhi, disse: la bambina è in incubatrice, questa mattina mi sono accorto che respirava con difficoltà e l’ho portata subito in ospedale.
E ora, Dio mio, ora come sta? - quasi gridò Lena tentando di sollevarsi – È in pericolo?
Speriamo di no, cerca di stare tranquilla, ti prego, è in buone mani. Io torno subito in ospedale, sono venuto per avvisarti, con te rimangono mamma e papà.
Le diede un bacio e uscì velocemente.
Lena si abbandonò a un pianto irrefrenabile e invano la suocera tentava di farle coraggio ripetendo che i neonati hanno di frequente problemi simili, specie se hanno sofferto per il cordone ombelicale attorcigliato al collo, ma niente di grave, nell’incubatrice si riprendono sempre. Occorreva soltanto un po’ di tempo.
Ore in quell’attesa, alla quale partecipò anche l’ostetrica, tornata dalle sue incombenze, che non si dava pace: lei aveva immediatamente liberato il collo della bambina, l’aveva rovesciata a testa in giù e aveva pianto, segno che l’aria era entrata nei polmoni. E la contessa a dire sì, aveva pianto pure mentre la bagnava, e ancora un po’ nella culla prima di addormentarsi. La difficoltà respiratoria le era venuta nel sonno, se n’èra accorto Nicolò ed era salito a chiamarla dicendole di scendere da Lena che lui sarebbe subito corso a portare in ospedale la bambina.
Alle sette della sera arrivò Nicolò a braccia vuote e le aprì sconsolato; poi, quasi cadendo addosso alla moglie, piangendo disse: l’abbiamo perduta.
Lena gettò un grido e rimase immobile, gli occhi sbarrati al soffitto. Il conte corse a chiamare il medico che arrivò subito e le praticò un’iniezione per farla addormentare. Verso la mezzanotte, avvertito da un messo del conte, arrivò Luciano che, vedendo la figlia sprofondata nel sonno indotto dal farmaco e pallida come un cadavere, ebbe un malore, ma per fortuna il medico era ancora lì e lo soccorse.
Il mattino Nicolò tornò a uscire per provvedere alla sepoltura della bambina. Insistette perché nessuno lo accompagnasse, avrebbe risolto tutto da solo, non usava fare un funerale per un neonato. E aveva già organizzato tutto il giorno prima quando, tornato in ospedale e saputo che la bambina era morta e l’avevano portata in obitorio, lui aveva preso accordi con una ditta funebre che avrebbe inumato il feretro nella tomba di famiglia, nel medesimo loculo dove si trovava la salma della mamma del conte.

Gli abitanti di quel tranquillo paese sono sconvolti: nel medesimo giorno, la contessina Lena dà alla luce una bambina che muore dopo alcune ore, e Caterina la Caprara trova una neonata abbandonata sotto una quercia al margine della strada. Non si parla d’altro, è un ribollire di commenti mescolati alla pietà per la madre che piange la perdita della sua creatura e all’indignazione per la sconosciuta che ha gettato la propria alle erbacce. Tutti si chiedono chi sarà mai quella donna snaturata e l’ipotesi più accolta è che si tratti di un parto clandestino avvenuto probabilmente nella frazione più marginale del paese, isolata tra i boschi e abitata da porcari e carbonai. Finché comincia a circolare una storia: la scellerata è la guardiana di un branco di maiali, appartenenti al salumificio locale, allevati allo stato brado. Una ragazza alta e grossa, proveniente dalle montagne della Laga, che vive nel bosco con quegli animali e dall’autunno all’inizio dell’estate sta avvolta in un enorme mantello di montone. Dorme nel fienile sopra la stalla, dove di notte sono ricoverati i maiali. E lei è altrettanto selvatica, non parla con nessuno, ma più volte i boscaioli hanno visto uscire all’alba dal fienile il figlio maggiore del proprietario del salumificio. Chiaro! Sarà rimasta incinta e ha nascosto la pancia in quel mantello smisurato. Avrà partorito da sola come le maiale e subito il ganzo avrà messo la neonata nel cesto della bicicletta e l’ha abbandonata là, dove l’ha trovata Caterina che, difatti, ha visto passare veloce un tizio in bicicletta, e solo dopo ha pensato che avrebbe potuto essere quello che portava la bambina. Non l’ha riconosciuto, ricordava solo che aveva una giacca scura con il bavero alzato e un berretto.
Vera o inventata, la storia fila liscia per tutti, anche per il padrone del salumificio che licenzia la mandriana nonostante lei, pur ammettendo di aver avuto rapporti sessuali con suo figlio, neghi giurando su tutti i santi che mai è rimasta incinta. Anche il giovane, interrogato dai carabinieri e dal parroco, giura di non aver commesso quell’infamia e se ne va dal paese. Per il dolore di non essere creduto, dichiara lui, ma per la gente la sua fuga è una conferma del misfatto.
In quei giorni parroco si recò allo stato civile per l’iscrizione della bambina nel registro delle nascite e il funzionario, nell’apprendere come e dove era stata trovata, le attribuì il cognome Quercia che al parroco parve una buona idea e si fece rilasciare il certificato di nascita per portarlo al magistrato dei minori e proporgli l’affidamento della bambina a Caterina. Strada facendo ebbe un’illuminazione e tornò al paese, chiamò Nicolò e gli disse: tua moglie soffre per aver perduto la figlia e, come saprai, una bambina è stata abbandonata e trovata dalla Capraia che desidera averla in affidamento, ma io penso che la potreste prendere voi. Un’opera buona che aiuterebbe tua moglie a trovare consolazione. E Nicolò: come può consigliarmi una cosa simile! È un’innocente, ma ha il sangue dei delinquenti che l’hanno messa al mondo e gettata… non posso rischiare d’allevare una bambina con un’eredità simile! E poi, Lena ed io potremo mettere al mondo tutti i figli che vorremo, basta aspettare il tempo necessario perché lei possa portare avanti un’altra gravidanza.
Va bene, come vuoi, ma alleggerisci la testa dai pregiudizi!
Il parroco si occupò per soddisfare il desiderio di Caterina e la bambina fu affidata a lei e al marito che continuarono a curarsene amorevolmente, estranei al rompicapo collettivo di sapere da chi e dove fosse venuta al mondo. Al tempo opportuno le avrebbero detto che era stata raccolta sotto la quercia, dono della provvidenza per arricchire di gioia la loro vita.
I loro due figli, accasati e con prole, non ne furono gelosi, forse perché non avevano da temere sottrazioni ereditarie, vivendo i loro genitori soltanto di lavoro; anzi, furono contenti per il loro esempio, non pagabile eredità morale. Lena continuava a star male, si nutriva appena nonostante le insistenze dei familiari, stava tutto il giorno dietro i vetri della finestra come guardasse il vuoto, la notte piangeva anche nel sonno.
Niente sapeva della bambina abbandonata, tutti si guardavano bene dal raccontarle una storia simile e soprattutto Nicolò che, conoscendola, temeva che le venisse in mente la medesima idea del parroco. Perciò quando Luciano, preoccupato delle condizioni della figlia, riportò il parere della psicologa secondo cui il trasferimento in città avrebbe potuto aiutarla a uscire dall’isolamento, Nicolò fu pienamente d’accordo.
Si stabilirono nella villa dotale di Lena che, con l’aiuto della psicologa e la vicinanza delle sue amiche, cominciò a risalire la china, riacquistando progressivamente i propri interessi. Dopo due anni, si mise in attesa di una gravidanza che non arrivò, evidentemente per sterilità di Nicolò attribuita dalla madre al fatto che aveva avuto la parotite a diciotto anni. Luciano conosceva una famiglia di contadini che aveva preso con sé la nipotina di appena un anno, orfana dei genitori essendo morto il padre prima che nascesse e la madre in seguito al parto, e ne parlò con Lena che pensò subito di adottarla. Fecero la proposta allo zio che, avendo già il carico di cinque figli, accettò volentieri e per Lena fu come una vera grazia.
L’adozione dell’orfanella suscitò pettegolezzi tra i paesani di Nicolò: come mai una coppia che aveva già generato invece di mettere al mondo altri figli ricorreva a un’adozione? Le ipotesi erano varie: forse una malattia sopraggiunta alla moglie o al marito, oppure, chi sa, quella bambina morta a poche ore dalla nascita non era figlia di Nicolò! La contessa, informata dei pettegolezzi da una sua amica, non ebbe difficoltà a correre ai ripari posticipando la data della malattia patita dal figlio e, sicura che la notizia sarebbe corsa veloce, rispose: purtroppo, dopo pochi mesi dal parto di Lena, Nicolò è stato colpito da una parotite la cui conseguenza è stata la sterilità.
Dell’episodio non si parlò più, archiviato dai paesani insieme al precedente della bambina abbandonata che rimase sconosciuto a Lena cui il tempo aveva sanato la ferita dei tragici eventi che l’avevano colpita, ma restava la cicatrice a richiamarne il ricordo.
Contento Nicolò, divenuto tanto attivo da sembrare un’altra persona: continuava ad andare ogni giorno in campagna a seguire i lavori agricoli e la cura della coppia di purosangue acquistati per creare un allevamento di cavalli; e soddisfatti per la conversione alla saggezza del loro figlio il conte e la contessa.
Tranquilli vivevano Caterina e Brando, gratificati dalla presenza affettuosa della bambina Bianca a loro affidata e lodata dalla maestra per sua intelligenza e l’amore allo studio. Una bambina anche serena, pur sapendo l’avventura occorsole appena nata. Gliel’aveva raccontato Caterina, credendo fosse meno traumatico apprendere una verità dolorosa quando si è in un’età in cui si confondono, come in un dormiveglia, realtà e fantasticheria; e lei, nel sentire d’essere stata trovata sotto una quercia, aveva immaginato fosse una favola. Poi capì che era verità e istintivamente l’accettò come possedesse una saggezza innata: abbandonata da chi non l’aveva voluta, era stata accolta e salvata da Caterina, e amata da lei e Brando, dai loro figli e nipoti. Perciò viveva contenta nella cascina di campagna con gli anziani coniugi che le avevano insegnato a chiamarli nonni, spesso si accompagnava con piacere all’una o all’altro nel portare a pascolo le capre, e la sera leggeva per loro ad alta voce le storie dei libri che prendeva in prestito dalla piccola biblioteca scolastica, e anche regalatole dalla maestra.
E fu la maestra che, subito dopo il conseguimento della licenza elementare, consigliò a Caterina di togliere Bianca dall’isolamento della campagna e farle frequentare la scuola media in città presso il collegio gestito dalle monache, la cui retta non era alta e dove avrebbe potuto continuare negli studi superiori. Caterina ci pensò, e dopo aver raccontato quanto consigliatole dalla maestra ai figli e al marito, decise di non chiudere la bambina in collegio e disse a Brando: siamo anziani, ormai, io non ce la faccio più ad andare appresso alle capre e a maggior ragione tu che soffri di artrosi. Abbiamo i risparmi del nostro lavoro, la pensioncina di anzianità, vendendo le capre ricaveremo un buon gruzzoletto e senza disturbare i nostri figli che si dicono disponibili ad aiutarci, possiamo affittare un piccolo appartamento in città per trasferirci lì e fare studiare questa creatura che ci ha mandato il Cielo in modo che abbia un avvenire migliore di quello che avrebbe restando qui.
Sì, hai ragione, però mentre tu avrai sempre i lavori di casa, io come passo il tempo senza far niente?
Senza far niente! Potrai occuparti di fare la spesa, e andare anche nell’officina meccanica di nostro figlio, che ti troverà qualcosa da fare. E poi, te ne vai in giro per la città, vedi cose e soprattutto cammini che ti farà bene, come dice il medico.
Va bene, Caterina, come vuoi tu, ma per le capre mi dispiace.
Anche a me, però per tenere le capre non possiamo sacrificare l’avvenire della bambina.
Caterina chiese aiuto al figlio per trovare un piccolo appartamento e nel giro di un paio di settimane, vuotarono la cascina dei mobili, la restituirono al proprietario e si trasferirono in città. Bianca, meravigliata per la presenza di tante chiese antiche, e felice per la bellezza delle opere d’arte che scopriva, all’inizio dell’anno scolastico cominciò a frequentare la prima media in una scuola pubblica.

In vari luoghi delle Marche era ancora in uso la tradizione antica, di derivazione pagana ma assimilata dal cristianesimo come altre, di celebrare il 21 marzo di ogni anno la festa della primavera.
Ad Ascoli Piceno si teneva nel chiostro maggiore dell’antico convento dell’Annunziata tramite una rappresentazione scenica interpretata dalle allieve della scuola media, vestite con una tunica rosa e il capo adornato da una corona intrecciata di roselline narcisi viole e altri fiori di stagione. Eseguivano una danza sul motivo di una canzone popolare inneggiante alla bella stagione attorno a una giovinetta che la simboleggiava. Poi, da un altoparlante, un dicitore recitava poesie in tema e in seguito le ragazzine intonavano canzoni popolari. Al termine della rappresentazione, scendevano dal palco dirigendosi tra il pubblico seduto attorno per regalare la propria corona a una donna scelta da ciascuna di loro.
Quel giorno, era il 21 marzo del 1988, tra le piccole attrici c’era anche Bianca che, terminata la rappresentazione e scesa dal palco per il dono rituale, incontrò lo sguardo di una signora e si fermò, si tolse la corona e gliela porse con un lieve inchino, fissandola intensamente. La ricevente era Lena che, nel guardarla, ebbe un senso d’irrealtà: il suo visetto era identico a quello di Cecco ragazzino che figurava in una foto da lei conservata tra le sue cose più care: medesimi gli occhi dalle lunghe ciglia ricurve, le alette del naso, la linea armoniosa della fronte… E i capelli, Dio! Quel biondo di spighe mature e la lieve ondulazione erano esattamente uguali ai propri. Prese la corona le fece una carezza e, trattenendo il tremito interno, le disse: grazie per il bel dono, come ti chiami? Non ti ho mai visto prima tra gli allievi delle elementari, andando a prendere mia figlia. Bianca - rispose la bambina sorridendo timidamente – Bianca… prima abitavo in campagna e ora sto qui, i nonni mi hanno portato a studiare in città.
E i tuoi genitori sono rimasti in campagna?
Bianca si fece seria, esitò un attimo e poi rispose: no, non lì ho i genitori. Lena pensò fosse orfana e, pentita della domanda, mormorò mi rincresce e cambiò discorso: ti piace leggere?
Sì, molto.
Ti regalerò un libro, hai preferenze?
No, lo scelga lei.
Va bene, lo lascerò alla tua insegnate di lettere.
Grazie, signora, ora vado dalla nonna che mi aspetta là - e indicò il posto in fondo, dove era seduta Caterina.
Ti accompagno, così conoscerò tua nonna, disse Lena alzandosi e porgendole la mano.
Non erano ancora arrivate che Caterina balzò in piedi e si avvicinò: tu, lei, contessina Lena! Quanto tempo che non ci vediamo!
Che bella sorpresa, Caterina, non sapevo avessi questa meravigliosa nipotina. Tutto bene? Bianca mi ha detto che non ha i genitori…
Tutto bene, sì, grazie a Dio. Bianca non è mia nipote di sangue, ma è come se lo fosse… Era lei la neonata abbandonata che ho trovato sotto una quercia nel nostro paese sulla strada che porta a casa mia, ricorda?
Oddio! No, non ricordo, mai saputo niente, quando è stato?
Oggi sono esattamente undici anni.
Ah, il medesimo giorno in cui ho partorito la bambina che ho perduto dopo poche ore! Lo so, me l’ha detto mia figlia alcuni giorni dopo e mi è dispiaciuto tanto, ho pensato a come va storto il mondo…
L’avrà saputo tutto il paese e a me non è giunto niente…
Stavi male, mi hanno detto.
Sì, molto e dopo ci siamo trasferiti qui.
Lena parlava come trasognata, nella sua testa turbinavano pensieri confusi, le balenava una speranza e contemporaneamente temeva fosse un’illusione per casuali coincidenze. Doveva sapere, altrimenti sarebbe impazzita.
Mi farebbe piacere parlare con te, posso venire a trovarti nel pomeriggio?
Quando vuoi, anche subito se mi vuoi fare l’onore di mangiare con noi: ho preparato i vinci sgrassi,3 oggi è il compleanno di Bianca!
Grazie, volentieri, entro qui nella pasticceria a telefonare a casa.
Entrò, telefonò, disse alla domestica di avvisare i familiari che lei si fermava a pranzo fuori perché non poteva rifiutare l’invito di un’insegnante di sua figlia incontrata alla rappresentazione. Poi comprò una torta e all’uscita la porse a Bianca che ringraziò con un sorriso grandioso che le faceva brillare il blu azzurrato degli occhi. Bianca ricordò lo sguardo amoroso di Cecco e avvertì un nodo alla gola.
Sai, ti ricordo bambina, le disse Caterina, quando venivi alla cascina con tuo padre a comprare le tomelle di capra… e perdona se mi scappa il tu, è la brutta abitudine di noi marchigiani…
A me fa piacere e credo sia giusto dare del tu a tutti, ci rivolgiamo così pure a Dio, no?
Caterina sorrise e le posò una mano sul braccio: mi sembri turbata…
Sì, se potremo rimanere sole per un po’, ti spiegherò perché.
Bianca saltellava in avanti e Caterina disse che dopo mangiato le avrebbe suggerito di andare a giocare con i bambini della vicina e a suo marito di fare una passeggiata.

Lena le raccontò dell’amore tra lei e Cecco, del tragico incidente in cui il giovane trovò la morte e del proprio matrimonio con il figlio del conte per dare un padre alla creatura che aspettava. Le descrisse quanto avvenuto il giorno del parto e il turbamento provato alla vista di Bianca per la sua impressionante somiglianza con Cecco e i suoi capelli identici ai propri: è stato come mi apparisse, cresciuta, la bambina che ho perduto! E subito dopo, tu mi hai detto di aver trovato Bianca, neonata, sotto una quercia proprio il medesimo giorno del mio parto! Immediatamente ho dubitato, no, ho avuto la certezza che mio marito ha fatto sparire la bambina dandola per morta!
Che dici figlia mia! – esclamò Caterina – pensi possa essere tanto cattivo il contino Nicolò?
Non lo so, mi aveva chiesto in sposa prima, ma io gli avevo detto di essere innamorata di un altro e ovviamente era rimasto male. Poi, per un accordo tra suo padre e il mio, lui accettò di passare per responsabile della mia gravidanza e ci sposammo. Anche se non lo amavo, gli volevo bene da quando eravamo bambini e desideravo che la mia creatura avesse un padre. In tutti questi anni non ho avuto motivo di lamentarmi del suo comportamento, e quando lui ha saputo di essere sterile ha assecondato la mia decisione di adottare una bambina, ma tutte le coincidenze che ho scoperto oggi mi hanno sconvolto e devo sapere se si tratta soltanto causalità, altrimenti impazzirò!
E come potrai sapere, anche se fosse come pensi, credi che lui te lo confermerà?
Gli chiederò una prova che è morta, poi ti dirò qual è, ora devo scappare a casa, la bambina sarà stranita che non sia ancora arrivata.
Torna presto, per favore, non lasciarmi con quest’assillo! Annota il numero del telefono, l’abbiamo messo per Bianca, così mi chiami e prendiamo appuntamento per vederci.
Lena, appena arrivata a casa, disse di avere un gran mal di testa, abbracciò la figlia e andò a letto. Non si levò neanche per cenare, pregò la domestica di portarle una camomilla e qualche ciambella per non prendere un’aspirina a stomaco vuoto e rifiutò la proposta del marito di chiamare il medico, disse che forse aveva preso freddo nel chiostro del convento, domani sarebbe stata bene.
Trascorse la notte insonne, raggomitolata su se stessa, aspettando l’alba, che sembrava non arrivare mai, con i nervi tesi come corde di violino; al primo bagliore saltò dal letto e, trattenendo l’impazienza a denti stretti, si occupò di preparare la colazione. Poi, come tutte le mattine, svegliò la bambina l’accompagnò a scuola e tornò a casa. Le era subentrata una calma glaciale e al marito che, sul punto di uscire, le chiese come stava, disse ora bene, grazie, ma ti devo parlare.
Non posiamo rimandare a più tardi? Mi aspettano al maneggio.
No, ora. Vieni di là – e si avviò al salotto.
Lui la seguì incuriosito ma non preoccupato, ipotizzò che, a pranzo, l’insegnante le avesse parlato di qualche problema riguardante la bambina.
Sedettero di fronte e, poiché lei taceva guardandolo in modo strano, le chiese: ti è piaciuta ieri la rappresentazione?
Sì, bella e sorprendente… Un avvenimento mi ha riportato a undici anni fa, alla perdita della mia bambina…
Che avvenimento?
Poi ti dirò, ma ho pensato che non sono mai andata a portare un fiore su quella tomba!
Perché pensi queste cose tristi! Nella cappella di famiglia i fiori non mancano mai, ci pensa il custode del cimitero, per incarico di mio padre… I morti bisogna lasciarli riposare in pace!
Già, ma devono aver pace pure i vivi, ed io non l’avrò finché non sarà aperto il loculo di tua nonna e non vedrò i resti della mia creatura.
Che ti prende? Ti dà di volta il cervello?
È sano, il mio cervello, è malato il tuo, che sei stato capace di un’azione autenticamente delinquenziale!
Che dici, che azione? Gridò Nicolò alzandosi in piedi e fissandola con uno sguardo atterrito.
Siediti, ascolta quanto oggi ho saputo e da cui ho dedotto quello che hai fatto.
Egli si accasciò in poltrona e lei, dopo aver riferito l’evento del giorno precedente, disse: sei stato tu a gettarla perché morisse di freddo e di fame, dopo aver mandato a dormire tua madre! E poi hai messo in atto tutta la sceneggiata: la difficoltà respiratoria, l’incubatrice, la sepoltura… se non farai aprire quella tomba davanti a me, mi rivolgerò ai carabinieri e l’apriranno loro.
Nicolò singhiozzava, ma dovette parlare, lei non gli concedeva tregua.
Non potevo sopportare il pensiero che tua figlia ti ricordasse l’uomo che avevi amato… che lo ricordasse anche a me. Non volevo che morisse, però, se no l’avrei gettata nel fiume. L’ho coperta bene, l’ho adagiata nel cestello della bicicletta e mi sono messo fermo all’inizio della discesa aspettando che qualcuno, proveniente dal sentiero del bosco dove in tanti vanno a cercare la legna, comparisse sulla strada. È comparsa Caterina la Caprara, ed io le sono passato davanti di corsa, ho lasciato la bambina più in là, sotto la quercia in margine alla strada, l’ho scossa per farla piangere, ho messo la bicicletta sulle spalle, sono salito sulla scarpata a lato monte e mi sono nascosto dietro un albero. Ho visto che lei l’ha raccolta e sono tornato indietro.
E se non l’avesse raccolta?
L’avrebbe fatto qualche altro.
Oppure sarebbe morta, no?
No, l’avrei riportata a casa.
Che malfattore e bugiardo sei! Non ti perdonerò mai il male che hai fatto a me e a quella creatura!
So che non merito il tuo perdono, ma ti prego, offriamo un buon compenso a Caterina, adottiamo la bambina e vedrai che mi comporterò bene.
E tu credi che io mi permetterò di fare una proposta simile a una donna che l’ha salvata e cresciuta con amore come fosse figlia sua? E allontanerei la bambina dalle persone cui è affezionata? Ho già pensato a una soluzione che non faccia male a nessuno, però tu te ne vai al palazzo o dove ti pare, senza farti vedere più da me. Ti garantirò un reddito e ci separeremo consensualmente. La bambina che abbiamo adottato rimane con me e le diremo che non andavamo più d’accordo, la stessa versione la daremo agli amici, invece i tuoi genitori e mio padre dovranno sapere la verità, non voglio che pensino a un mio colpo di testa!
No, Lena ti prego, non mi punire così!
Se non così, come? Per via legale, svergognandoti pubblicamente? Ti salvo per rispetto dei tuoi genitori, affinché non si debbano vergognare per quello che hai fatto! Anzi, è meglio che vai a raccontargli tutto tu stesso e te ne rimani lì, non ti voglio trovare qui, né questa sera né mai.
Lasciandolo avvilito e piangente, Lena telefonò a Caterina, le diede la conferma di avere avuto la confessione del marito e presero appuntamento per il pomeriggio.
Caterina avrebbe provveduto perché fossero sole. Recandosi da lei, Lena passò da una libreria e comprò per Bianca le fiabe di Andersen.
Caterina l’ascoltò sbalordita e commossa e alla fine, facendole una carezza, disse:
mi susciti pena, povera figlia! E non voglio togliere la madre a Bianca né la possibilità di avere un avvenire che noi non possiamo darle, però senza di lei morirei! E anche la bambina ne soffrirebbe… cerchiamo di fare così: io le racconto tutto, è una ragazzina intelligente, conosce la sua vicenda e, se è d’accordo, sta un po’ con te e un po’ con me. Va bene, così?
Sei una persona straordinaria, Caterina, ma esiste una soluzione migliore, buona per tutti: nella mia villa c’è un appartamento libero con un muro in comune con la mia abitazione…ti trasferisci lì con Bianca e tuo marito, apriremo una porta di comunicazione e staremo insieme come un’unica famiglia. Così Bianca vivrà con te, con me e con la sorellina.
Sì, però pagherò la pigione.
Non essere superba, Caterina, sono sempre io in debito con te per aver salvato mia figlia e averla accudita per undici anni! Permetti che ti consideri come una mamma, e faccia parte della mia famiglia anche tuo marito che ha condiviso la tua generosità verso la bambina. E pensa quanto sarà prezioso l’aiuto che mi darai per far crescere bene le due ragazzine.
Sopraffatte dall’emozione, le due donne si abbracciarono, quindi decisero fosse opportuno che Lena andasse via prima del ritorno di Bianca, cui era meglio le raccontasse tutto la nonna.
Lena tornò a casa, Nicolò non c’era e le aveva lasciato una lettera in cui insisteva a chiederle perdono e le comunicava che sarebbe andato a chiederlo anche ai suoi genitori. Lena si sentì sollevata che se ne fosse andato e di essere liberata dal penoso compito di informare personalmente i suoceri, e volse il pensiero a Bianca, al miracolo che gliel’aveva restituito.
Intanto, Caterina si disponeva a informare Bianca dell’evento, non si preoccupava per come farlo: era stata capace di rivelare a quella creatura non solo di essere priva di genitori, anche di essere stata da loro abbandonata; e ricordava che una volta, mentre seguivano le capre al pascolo, lei le aveva detto: mi dispiace di essere figlia di persone cattive e sono contenta di non conoscerle! Ecco, ora che il mistero era svelato, Bianca avrebbe conosciuto la madre e saputo, contemporaneamente, quanto aveva sofferto e dell’innocenza del padre morto prima che lei nascesse.
Rincasata la bambina, le consegnò il libro delle fiabe di Andersen e lei: oh, la signora Lena è venuta qua ed io non c’ero!
Non fa niente, ha detto che tornerà a trovarti domani pomeriggio.
Bianca prese il libro, sedette al camino e, prima di cominciare a sfogliarlo, si rivolse a Caterina:
Come sono contenta che torni! Hai visto quant’è bella? E che ha i capelli come i miei?
Sì, e per questo ti vuole bene e perché somigli a un ragazzo che lei amava ed è morto prima che nascesse la loro creatura.
E com’è morto?
Investito da una macchina…
E lei ha sofferto, vero?
Certo, poi ha sposato il figlio del conte di qui, anche se non lo amava.
E perché, allora?
Perché aspettava una creatura concepita con quel ragazzo e desiderava che avesse un padre, ma poi è finita male!
Male come?
È nata una bambina ma il marito di Lena per gelosia l’ha presa di nascosto a tutti e l’ha abbandonata in margine a una strada, poi ha detto di averla portata in ospedale perché non respirava bene e lì era morta.
Mi dispiace tanto, povera signora! E poi ha avuto altri figli?
No, ha adottato una piccola orfana, ma le è rimasto nel cuore il dolore per aver perduto la propria bambina…
Bianca la guardava con un visetto triste e a Caterina parve, o così desiderava, che lei la interrogasse con lo sguardo e fece un altro passaggio: sai che tutto questo è avvenuto lo stesso giorno in cui ti ho trovato sotto la quercia?
Bianca le puntò gli occhi negli occhi, le labbra semiaperte come per respirare meglio, però muta. Caterina, che si era seduta di fronte a lei, la prese in braccio e le disse: quando ti ho raccontato che eri stata abbandonata sotto quella quercia, ti è sembrato che fosse una brutta favola, ricordi? La bambina fece segno di sì e la donna continuò: ora ti racconto come tua madre ti ha ritrovato, e non è solo una favola bella, è semplice realtà.
Bianca balzò a terra e, inchiodata davanti a lei, le strinse forte le braccia: che mi stai dicendo, nonna, che quella signora è la mia mamma?
È così, mia piccola, ora ti racconto come e perché l’ha capito e com’è riuscita a ricostruire tutta la vicenda. La riprese in braccio, Bianca si strinse a lei e tremando ascoltò.

A letto con Caterina e abbracciata a lei, pianse per quasi per tutta la notte e come non potesse dire una parola, rispondeva soltanto a segni: sei triste? Segno di diniego. Sei felice? Segno affermativo. Allora perché piangi? Alzata di spalle. Finalmente, fatto giorno, si addormentò.
Si svegliò che erano le dieci passate: ho perduto la scuola!
Non importa, per un giorno; fai colazione, è pronta.
Bianca sedette al tavolo, guardò la nonna e disse: piangevo perché mi piacerebbe vivere con la mia mamma, ma non voglio lasciare te.
Non ti preoccupare, starai con tutte e due, lei ti spiegherà come.
A che ora viene?
Ha detto nel primo pomeriggio.
Sai come si chiamava mio padre?
Si chiamava Cecco, tua madre ti mostrerà una sua foto da bambino in cui si vede che suo visetto è identico al tuo.
Bianca si alzò e cominciò a sparecchiare saltellando. Lavò le suppellettili e poi chiese: mi faccio un bagno?
Come vuoi, ma l’hai fatto avantieri, non puoi essere sporca!
Sì, però, dopo il bagno una è profumata!
Va bene, preparo l’acqua calda per la tinozza.
Fece il bagno e indossò la gonnellina bianca e il maglione colore azzurro-blu come i suoi occhi regalatole dalla nonna alcuni giorni prima del suo compleanno.
Dopo pranzo cominciò a girare per la stanza sostando continuamente davanti alla finestra. Finalmente vide Lena scendere dall’auto, corse alla soglia e lì si fermò, le gambe tremanti e lo sguardo offuscato dalle lacrime. Lena, in preda a intensa commozione, la strinse tra le braccia e non finiva di baciarla mentre le loro lacrime si confondevano. Intervenne Caterina, fece sedere Lena che adagiò la ragazzina sulle gambe, le asciugò il visetto e continuò a carezzarla.
La nonna ti ha raccontato tutto, vero?
Sì.
E sei contenta?
Certo, mi pare un sogno meraviglioso! Mi ha detto che mi avresti spiegato come starò con te e con lei…
Lena le descrisse i due appartamenti confinanti assicurandole che vi si sarebbero trasferiti molto presto, il tempo di aprire la porta di comunicazione. Promettendole che l’avrebbe portata e vederli il giorno dopo, andò via. Le restava il compito di informare suo padre, ormai sposato con la donna che amava, e si diresse al negozio. Le dissero che era salito un momento a casa e lo raggiunse. Luciano non si meravigliò, era assuefatto a improvvise visite della figlia, ma notò il suo volto affaticato e si preoccupò.
Sto benissimo, papà, e sono felicissima. Sono venuta per raccontarti una cosa strabiliante!
Ehi! Che è successo?
Seguendo il racconto della figlia, Luciano sbalordiva sempre più e alla fine le chiese perdono per averla indotta a sposare quel mascalzone - non avrebbe mai potuto immaginare che fosse capace di un simile misfatto! – e condivise le sue decisioni. Gli dispiaceva per il suo amico e la moglie, poveri sventurati, disse, a scoprire che il loro figlio era un delinquente.
La sera del giorno dopo, a casa di Luciano arrivò il conte a implorarlo di intercedere presso la figlia perché perdonasse quello scervellato di Nicolò che aveva agito, a suo parere, in preda a un raptus di gelosia. Luciano gli rispose che pur addolorato per lui, non avrebbe mosso un dito a favore di chi aveva fatto tanto male alla propria figlia e alla sua creatura e, rammaricandosi di essere stato l’artefice principale di quel matrimonio, comunicò al conte l’intenzione di Lena di non rendere pubblico il misfatto e cedere a Nicolò uno dei fondi avuti in dote, compreso l’allevamento dei cavalli, precisando di esserne consenziente solo per la loro antica amicizia.
Il conte si rese conto dell’inutilità dell’insistenza, dichiarò di riconoscere le ragioni dell’amico e di Lena e ringraziò per la loro promessa di mantenere il segreto al fine di evitargli la vergogna che altrimenti avrebbe patito.

La contessa si affannò a spiegare alle sue amiche che la separazione tra Nicolò e Lena era avvenuta per incompatibilità di carattere, senza risparmiarsi qualche frecciatina sulla pretesa della nuora di averla vinta su tutto: avendo conosciuto Bianca e saputo la sua storia da Caterina, si era messa in testa di adottare anche lei e poiché Nicolò si opponeva per l’origine sconosciuta della ragazzina, aveva deciso di lasciarlo pur di fare come voleva lei.
Pensava di chiudere così le bocche che si passavano informazioni associazioni e ipotesi, senza però venire a capo di niente: talmente incredibili gli eventi che nessuno arrivò a immaginarli.

Roma, marzo 2011
Sara Zanghì


Nota dell’autrice
Non so se la storia di Bianca sia vera, come sostenuto da chi me l’ha raccontata una notte di luglio dell’anno scorso nella cucina di un albergo in un paese situato alle alte pendici dei monti Sibillini; perciò nel timore che si tratti di fatti realmente accaduti, non cito il luogo e attribuisco nomi inventati ad alcuni personaggi che sarebbero ancora viventi.
Ero in vacanza ospite di quell’albergo, e una sera intorno alla mezzanotte mi venne sete e andai nella hall per chiedere una bottiglia d’acqua, ma il portiere dormiva beato sulla sedia sdraio e, intravedendo provenire luce dalla cucina, vi entrai. C’era la cuoca, una simpatica donna robusta, braccia muscolose e mani grandissime, che assottigliava velocemente col matterello la pasta per i tagliolini. Si disse contenta della mia comparsa perché lavorare di notte, sola, era proprio pesante. Insonne com’ero, mi fermai volentieri ad ascoltare la descrizione della sua ricetta per la preparazione della squisita crema fritta. Mi svelò che il segreto consisteva nell’usare il latte di capra, come le aveva insegnato sua nonna Caterina morta novant’enne da qualche mese e aggiunse che era una donna fuori dal comune, capace di cose straordinarie, tanto che aveva tenuto con sé e cresciuto una neonata trovata abbandonata sotto una quercia nel paese limitrofo. E, notando il mio interesse, continuò fino all’epilogo della storia che coincise con l’apparizione dell’alba: prendemmo un caffè, lei andò in camera a riposare qualche ora, io vi avviai in auto al paese confinante per vedere il luogo da lei indicatomi, dove era stata abbandonata la bambina salvata da Caterina la Caprara.

Note
1 Soprannome per il possesso di un piccolo gregge di capre.
2 È situato sul monte Vettore nel massiccio dei Sibillini e deriva il nome dalla leggenda secondo la quale il corpo di Ponzio Pilato, condannato a morte da Tiberio, fu chiuso in un sacco, messo su un carro di bufali lasciati senza guida e finì nel lago da una cresta di monte. Nell'antichità fu chiamato anche Lago della Sibilla e dalla tradizione popolare è ritenuto un luogo magico.
3 Timballo di lasagne con sugo e carne di papera e formaggi.

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