sabato 24 novembre 2012

La canteora gitana

Ricordavo la casa del Sacromonte1 situata su una radura sotto il colle Valparaiso, e soprattutto lei, la canteora gitana che una sera d’aprile del 2000 festeggiava il suo ottantesimo compleanno con i sodali e avevo avuto la ventura di esserci anch’io, grazie a una comune amica.
Ricordavo perfettamente la sua figura agile nonostante l’età, lo splendore degli occhi appassionati e l’amabile volto appena segnato da qualche ruga, i capelli bianchissimi raccolti in una crocchia.
Aveva cantato per noi, e tante volte mi era tornato il suono della sua voce nel cante por tango flamenco con sequenze incalzanti e vive, accorata nei cadenzati accenti por farruca evocanti la nostalgia dell’esule per la terra d’origine, e profonda nel Cante Jondo pervaso di dolore, senso di mistero e fatalità peculiari del mondo andaluso che ispirò a Federico Garcia Lorca il Romancero gitano.

Non immaginavo, allora, che sarei ritornata dopo dodici anni, e invece eccomi, in una limpida giornata di settembre, seduta accanto a Estéla davanti alla vetrata aperta sullo splendore dell’Alhambra e sul corso del Darro che scorre tra i due versanti della vallata, fiume evocante leggende come le grotte imbiancate a calce risuonanti degli arpeggi di chitarre e canti gitani di un tempo lontano.
Felice di ritrovare questa straordinaria donna, lucida e piena di vitalità fisica alla bella età di novantadue anni, le chiedo se vuole raccontarmi la sua storia della quale ho soltanto cognizioni approssimative. Risponde di non averne mai parlato estesamente per non evocare avvenimenti terribili che invece le tornano nel ricordo contro la sua volontà, e riflette un po’, la mano sulla fronte, poi dice che proverà, può darsi che se ne liberi per i giorni che le rimangono. E comincia la sua narrazione nel musicale accetto andaluso, intrecciando gli avvenimenti soggettivi a quelli storici, tenendomi avvinta all’ascolto.
È nata nel 1920 in quella grande casa che suo padre aveva avuto in eredità dal nonno di cui potava il nome, Esteban. Allora c’era anche l’officina per la produzione artigianale del rame, atavica tradizione familiare, ma oltre ai manufatti di utilità casalinga, il padre creava oggetti esornativi e bigiotteria: vasi cesellati con figure di fiori, animali, segni dello zodiaco, e imitazioni di gioielli, come il medaglione a forma di stella che lei mi mostra dicendo di considerarlo più prezioso di ogni gioia autentica perché il padre l’ha fatto il giorno della sua nascita. E con orgoglio parla del senso estetico e la straordinaria abilità di maestro Esteban nel realizzare la bellezza con le mani, della sua perizia anche come chitarrista. Era stato allievo di un bravo musicista insieme a due ragazzi e alla loro sorella, Morayma, che suonava le nacchere e la mandola, uno dei fratelli il violino e l’altro la fisarmonica. Invogliati dal maestro, gli allievi eseguivano dei brani musicali nella sua casa, dopo un certo tempo a Esteban venne l’idea di formare una piccola orchestra e suonare le sere di vigilia festiva in uno spazio ricavato nell’officina del padre per chiunque volesse assistervi. Ben presto ebbero un pubblico entusiasta: quando il suono cominciava a diffondersi, accorrevano persone del quartiere così numerose che occupavano anche parte dello spiazzo. Finì che un gitano benestante di nome Ramón, proprietario di un caffè del luogo, li assunse per tenervi concerti di flamenco. Dopo un paio di anni, non ci furono matrimoni o altre feste per il circondario in cui quei ragazzi non fossero chiamati a suonare.
Intanto, Esteban e Morayma si erano innamorati e si sposarono. Si amavano e condividevano molte cose: le tradizioni della medesima antica tribù, la passione per la musica e un senso etico rigoroso che gli imponeva di vivere del proprio lavoro. Il padre della ragazza era un fabbro ferraio e anche lui lavorava in proprio in un locale di sua proprietà. Erano gitani agiati, discendenti da famiglie stanziali nel territorio da molto tempo e integrati nella comunità locale, una condizione privilegiata e di pochi, tra tanti poveri, ma allora non era rara.
Morayma ed Esteban ebbero due figlie: Estéla e Juanita. Non vollero una famiglia numerosa per il desiderio di assicurare il benestare alle bambine e anche perché entrambi tenevano a mantenere il loro tenore di vita consistente nel lavoro e nell’attività artistica. Lui continuava il suo mestiere artigianale e lei badava da sola alla casa e si curava delle bambine. Era dotata di una bella voce ma non volle mai cantare in pubblico per non avere tanti occhi solo su di lei mentre, suonando, non era tanto esposta agli sguardi perché stava nel gruppo. A casa, però, cantava nelle feste parentali e sopratutto ogni giorno, appena si alzava dal letto. Fino all’avvento del terrore – racconta Estéla - ogni mattina mi svegliavo al suono del suo canto, e cantando veniva ad aprire la finestra, o gli scuri se era freddo, della camera che dividevo con mia sorella, incitandoci a levarci con dolcissimi ritornelli scherzosi simili a questo: Peinate tù con mi peine /que mis peines son de azucar/ quien que mis peines se peina/ hasta los dedos se chupa.2 E cantava anche versi del Romancero Gitano di Lorca: Verde que te quiero verde/verde viento, verdes ramas./ El barco sobre la mar/ y el caballo en la montaña.3 Per la forte propulsione che mi veniva, cominciai a imitarla prima ancora di saper pronunciare chiaramente le parole, però la tonalità era quella della sua voce.
Crescevano veramente contente lei e Juanita, frequentavano la scuola, imparavano a suonare gli strumenti dai genitori che, felici per il timbro della voce di Estéla, decisero di mandarla anche a una scuola di canto. Juanita aveva il talento del disegno e cominciò a frequentare un corso pomeridiano per imparare la tecnica. Era brava, creava disegni originali che poi il padre riproduceva nella bigiotteria di rame.
A quindici anni, con trepidazione, Estéla accettò di cantare nel caffè di Ramón, dove si esibiva l’orchestra dei suoi familiari, e andò così bene che trovò il coraggio di accettare l’ingaggio.
Dopo un anno successe il finimondo: lo scoppio della rivolta armata guidata da tre generali monarchici e fascisti contro il governo del fronte popolare, formato dalla sinistra e dai repubblicani, che aveva vinto le elezioni. Era il luglio del 1936. Due dei generali rivoltosi erano i capi del movimento reazionario “Giunta Militare” e l’altro, Francisco Franco, era l’ultranazionalista della Falange spagnola. Iniziò così la sanguinosa guerra civile e nel giro di pochi mesi, morti i due generali della Giunta, Francisco Franco unificò tutti i movimenti nazionalisti nel partito della Falange autoproclamandosi il capo, e assunse da solo il comando. Con i falangisti erano schierati tutti i reazionari: gli apparati militari eccetto l’aviazione, gli agrari, i ricchi borghesi, i cattolici retrivi; contro di loro i contadini, gli operai, i minatori, gli artigiani, i borghesi progressisti, gli intellettuali e gli studenti, ossia la maggioranza della popolazione a favore della quale accorsero volontari da altri Paesi. Franco, però, ebbe notevoli aiuti di uomini, armi, mezzi blindati e aerei da Mussolini Hitler e Salazar.
La terribile guerra civile, che fece quasi un milione di morti, terminò nel marzo del ’39, con la presa del potere di Francisco Franco che cominciò a imporre la sua tirannia e il terrore consolidando l’inferno già attuato dai falangisti sin dall’inizio del conflitto: all’ordine del giorno l’assassinio e la desaparición di marxisti, anarchici, democratici. Tra i primi desaparecidos, Federico Garcia Lorca che aveva redatto e firmato, assieme a Rafael Alberti e altri 300 intellettuali spagnoli, un manifesto d'appoggio al Frente Popular apparso il 15 febbraio di quell’anno sul giornale Mundo Obrero. Il poeta era già sotto la mira dei falangisti perché socialista e omosessuale. Lo presero in un’imboscata, lo portarono a Viznar, un paese situato nel parco nazionale della Sierra Huértos, e di lui non si seppe più niente. Certamente lo uccisero, anche se nessuno ha mai detto di aver visto. Dalle indagini fatte in quella zona dopo la fine della dittatura, sono emerse delle fosse comuni con resti di scheletri. Alcuni dei frammenti ossei, secondo i risultati delle analisi, pare che siano di Lorca, ma una delle leggende sorte dopo la sua sparizione vuole che, fucilato, fosse stato creduto morto e abbandonato in un fossato, dove un carrettiere di passaggio, accorgendosi che era ancora vivo, lo raccolse portandolo a casa e curandolo. Ma non lo riconobbe e, poiché l’uomo era dimentico di sé e di ciò che gli era successo, appena guarì, lo affidò a un istituto di alienati, nella periferia di Granata. Qui lo sconosciuto continuava a non ricordare assolutamente nulla e si aggirava con aria smarrita nel parco finché sparì dall’istituto e comparve per le vie del centro, mendicando e dormendo in ripari di fortuna. Spesso entrava nel bar di cui era stato abituale frequentatore il poeta, si guardava intorno pensoso ma poi i suoi occhi si svuotavano e chiedeva un caffè. Pur non riconoscendolo, glielo offrivano. Un giorno di tanto tempo dopo, caduta la dittatura, il mendico, vagando per la strada, vide un cartellone con una foto di Lorca e l’annuncio della rappresentazione di una sua un’opera teatrale. Si fermò, guardò prima incerto, poi portò le mani alla testa emettendo un grido lacerante e cadde, colpito da un infarto. Fu riconosciuto all’obitorio.

Una dittatura feroce, continua Estéla, che distrusse ogni autonomia dei gruppi sociali sconfitti, soppresse tutti i diritti di espressione, incarcerò i sospettati di colpe contro il regime torturandoli per avere rei confessi da mandare in galera e usarli in lavori forzati, o fucilarli, condanne facili da ottenere con i processi celebrati dai tribunali militari. E uccisioni e rapimenti perpetrati in agguati. I prigionieri di guerra furono ridotti in schiavitù, perseguiti gli omosessuali cui, dopo un periodo di sottoposizione a una dura ‘rieducazione’ di batoste e violenze d’ogni tipo, fu applicata la “Legge sui malfattori e vagabondi” comportante divieto di soggiorno e internamento in campi di lavoro e luoghi di pena. Molti finirono suicidi per disperazione. La legge colpì anche i gitani poveri, e pesanti discriminazioni patirono anche quelli che vivevano di lavoro.
Dure le condizioni per le donne. Nel lavoro, a parità di mansione, erano sempre pagate meno degli uomini ed era loro proibito esercitare il commercio, andare a scuola oltre un certo grado, chiedere il passaporto. Alle sposate era vietato lavorare e dovevano essere licenziate se avevano un’occupazione prima del matrimonio. Potevano sposarsi, o farsi monache, soltanto dopo il compimento dei venticinque anni, ma dovevano passare dalla tutela paterna a quella del marito e nelle case erano come delle serve. Se qualche donna andava via da casa, era tacciata di prostituta.
Nessuna voce si levò dalle gerarchie ecclesiastiche che tollerarono in silenzio tutti i delitti contro la persona perpetrati dalla dittatura franchista. L’assoluta condizione d’isolamento e di autarchia imposta dal regime, oltre che indurre un regresso culturale e civile della Spagna, causò un enorme impoverimento generale. La mano d’opera fu soggetta a disciplina coercitiva, e sulla fame dei lavoratori furono raccolti i capitali necessari alla ricostruzione del dopoguerra e alla costruzione dei mausolei franchisti.
Tanta parte del popolo spagnolo aveva vissuto nella povertà, ma durante il regime dilagò la miseria in maniera terribile, mentre i gerarchi accumulavano ricchezze, soprattutto Francisco Franco che alla sua morte lasciò agli eredi diciotto tenute e quattro milioni di pesetas, a quel tempo una cifra enorme.
I genitori di Estéla, come tutti i gitani che avevano possibilità economiche, aiutavano i bisognosi, ma lo poterono fare fino a un certo punto. Data la discriminazione etnica, la gente non gli faceva più commesse di articoli artigianali e il lavoro mancava e quindi anche gli introiti. L’orchestra non era più richiesta nelle feste perché nessuno aveva voglia di farne, anche i locali di svago diminuirono l’attività perché tenuti d’occhio dalla milizia franchista e da spie che orecchiavano i discorsi dei presenti. Ramón, però, continuava a organizzare le serate musicali nel suo caffè per venire in aiuto agli artisti e anche per portare avanti un’iniziativa volta a tenere desta la resistenza morale al franchismo, curando di far circolare clandestinamente testi che ne ribadivano le ragioni. Tale compito era svolto dal medesimo Ramón insieme a Esteban e ai due fratelli di Morayma, in contatto con alcuni intellettuali redattori dei testi. Questi facevano arrivare al locale il plico delle copie ciclostilate nascosto nel fondo delle ceste di patate e cipolle del carretto che settimanalmente le portava per la preparazione di tortillas da servire, insieme alle tapas di cheso e prosciutto serrano, come aperitivi agli avventori. Il proprietario, prima di consegnare le ceste in cucina, cercava il plico e lo deponeva in una buca scavata nel muro portante del bagno, dietro alcune mattonelle ammucchiate come per riserva utile a sostituire eventuali rotture e, a copertura, un quadro con una scena di corrida. Un giorno a settimana, mai il medesimo, uno o l’altro degli orchestrali divideva il plico in due metà e le consegnava a due persone che, fatte successive divisioni, le distribuiva ad altre che continuavano la catena finché tutti gli amici e compagni venivano in possesso dei materiali politici.
Agivano con la massima prudenza per non suscitare sospetti tra gli spettatori ed evitavano di fare, nel locale, qualsiasi accenno alla situazione politica, tenendo a bada l’angoscia per l’inferno che tutti vivevano e in cui era affondato anche il resto del mondo per l’avvento della guerra.

Afflitta come gli altri, Estèla non pensava proprio a sposarsi, al contrario della sorella minore che si era fidanzata con un giovane di Granata impiegato in una società finanziaria. Ai familiari della ragazza quell’occupazione non piaceva per i noti metodi di strozzinaggio usati da quel genere di aziende, ed erano perplessi perché temevano che il giovane, non essendo gitano, condividesse nel profondo i diffusi pregiudizi etnici. Juanita assicurava che Diego era tollerante e buono e soprattutto profondamente innamorato di lei. Il padre, però, considerando la sgradevolezza fisica del giovane a causa della sua pinguedine, sospettava che lei volesse sposarlo solo perché percepiva un regolare stipendio, fattore di sicurezza in quei tempi grami che attraversava anche la loro famiglia, e più volte le chiedeva: perché mai, bella come sei, vuoi unirti con un pallone di lardo? Juanita però rimaneva ferma nella propria decisione: che importa? Ha un animo gentile e mi ama.
Si sposarono e Diego insistette perché abitassero in un appartamento da lui preso in affitto al centro di Granata, rifiutando di stabilirsi in una parte della grande casa dei suoceri con servizi ed entrate indipendenti. Sicuramente aveva percepito di non essere bene accetto dai familiari della moglie e specie dal padre, ma non dava a vederlo, si comportava educatamente e non mancava di accompagnare Juanita ai concerti del caffè. Esteban non s’interiva per niente, quel genero gli rimaneva indigesto e di tanto in tanto gli scappavano battute piuttosto spiacevoli anche alla presenza di Diego che fingeva indifferenza e talvolta persino sorrideva con l’aria di chi sorvola su una petulanza. Perdette però la pazienza la sera in cui, stando a cena insieme ai familiari, si discuteva del problema che cominciavano a porsi: era trascorso un anno dal matrimonio e non c’era ancora alcun segnale dell’arrivo di un bambino. Forse era tempo, suggerì Morayma, che Juanita e Diego si sottoponessero alle indagini del caso e così cercare i rimedi, e lui, il genero, subito disse: ho già sollecitato Juanita ad andare da un ginecologo, ma lei non si smuove. A questo punto, Esteban non si tenne dallo sputare il rospo che gli stava nello stomaco: e perché mai deve cominciare lei ad andare dai medici, sana com’è e con tutto in regola, e non tu che sei afflitto da mollezza e avrai gli spermatozoi fiacchi? Diego si alzò da tavola, trascinò la moglie per un braccio, disse buona sera e uscirono.
Preoccupate, Estèla e la moglie insisterono perché Esteban rimediasse chiedendo scusa al genero e lui, dopo qualche minuto di resistenza, crollò per non addolorarle. Andarono in auto e arrivarono poco dopo, gli aprì Juanita piangente, il padre l’abbracciò e le disse di chiamare il marito perché voleva scusarsi. E lo fece, anche con toni sinceri perché teneva molto alla serenità della figlia. Diego accettò le scuse, ma da allora la sua presenza in casa dei suoceri e ai concerti non fu più costante come prima. La pace, però, pareva fatta.

Estéla ha sempre amato passeggiare ed era su uno dei sentieri del suo quartiere costeggiati da agavi e fichi d’india il pomeriggio che vide un giovane chino su un cespuglio dove stava miagolando un gattino bianco e si fermò a guardarlo. Il giovane, vedendola, si sollevò ed ebbe un’esclamazione: che bella sorpresa incontrarla doña Estéla! L’ho ascoltata ieri sera al caffè, aggiunse con un sorriso radioso. Poi, tornando a chinarsi prese il gattino e mostrandoglielo: guardi che meravigliosi occhi verdi-azzurri ha questa creatura, sarà andata in giro e si è perduta, oppure qualcuno l’ha abbandonata, vuole prenderla lei? Io abito a Siviglia e non vi ritorno prima di alcuni giorni.
Certamente, rispose lei porgendo le mani, ho altri due gatti e lo adotteranno. Nell’atto in cui lui glielo porse, i loro occhi s’incontrarono e lei percepì un brivido alla schiena, una sensazione strana e bella. Nel frattempo, il giovane si presentava, diceva di chiamarsi Horacio, di trovarsi in Granata perché stava organizzando in una campagna vicina un nuovo allevamento di cavalli, lavoro di cui a Siviglia si occupava con i suoi familiari, di antica provenienza gitana, e parlando si accompagnava a lei che tornava verso casa per accudire al gattino. Lo invitò a entrare, andò in cucina a prendere un pezzetto del pollo preparato per i gatti di casa, lo mise in un piattino e lo depose sul pavimento davanti al piccolo che, affamato, lo mangiò subito. Poi sedette e invitando il giovane a farlo anche lui, prese il gattino, lo poggiò sulle gambe e, carezzandolo, disse che gli avrebbe fatto la cuccia in un cesto. Entrarono i due di casa che alla vista dell’ospite usurpatore delle tenerezze della padrona, s’immobilizzarono arruffando il pelo e scapparono. Non si preoccupi, disse Horacio, si sono ingelositi, ma gli passerà presto. E aggiunse che a casa sua c’erano ben sei gatti, quattro dei quali raccolti in tempi diversi per la strada, e continuò a raccontare episodi della sua consuetudine con i gatti e i cavalli rivelando una sensibilità che Estéla notò con piacere. Poi, lui le disse che la conosceva già di fama come quasi tutti a Siviglia e la sera prima, dopo il concerto, non aveva osato avvicinarla per congratularsi a causa della propria timidezza.
Congedandosi, le chiese se aveva piacere che tornasse. Sì, rispose lei, e in quell’attimo percepì un brivido alla schiena.
Uscito lui, si sentì stremata per la rivelazione arrivatale improvvisa in quell’istante. Era arrivata a venticinque anni rimuovendo attrazioni e simpatie per la determinazione di essere una donna indipendente da tutele di ogni sorta e quanto le stava succedendo la preoccupò. Si stese sul letto pensando di non dover soccombere a un’emozione immotivata, ma non riuscì a togliersi dagli occhi quel bel giovane gitano, elegante nella figura e amabile nei modi.
La sera del concerto della successiva settimana, appena arrivata al locale, lo vide sulla soglia ed ebbe un moto di felicità che lui dovette cogliere perché nel prenderle la mano facendo l’atto di baciarla, le mormorò grazie. Da allora, per un paio di mesi, fu sempre presente ai concerti finché una sera, accompagnandola a casa, le disse di amarla e le chiese di sposarlo. Lei stava per rispondere di sì, e invece gli parlò delle sue perplessità sul matrimonio, del suo bisogno di essere una donna libera. Lui, la mano sul cuore, giurò che in nessun modo, in nessuna circostanza, avrebbe tentato di influire minimamente sulla sua libertà. I genitori fecero il resto, sollecitandola ad accasarsi perché era tempo e aveva incontrato l’uomo adatto a lei.
Fu lo sprone che desiderava. Si sposarono e Horacio accettò che si stabilissero nella casa natale di Estéla. Era il settembre del 1943, la Spagna e il resto del mondo senza pace. Impossibile persino la speranza che potesse un giorno arrivare. Qualche mese dopo Estéla rimase incinta ma continuava a cantare, la gravidanza non le procurava fastidi e il canto e la musica davano sollievo a lei e a chi ascoltava. Ma una sera ecco irrompere alcuni poliziotti che ordinarono al pubblico di uscire immediatamente e quindi il graduato tra loro lesse un foglio in cui si contestava a Esteban e al proprietario del locale, di svolgere attività sovversiva contro la nazione e ai due orchestrali, fratelli di Morayma, di esserne complici. I quattro uomini non ebbero neanche il tempo di aprire bocca, che i gendarmi li ammanettarono e li portarono via nel cellulare militare.
Terrorizzati, Morayma Estéla e Horacio si avviarono al centro per raggiungere l’abitazione dell’unico avvocato disponibile a correre il pericolo di difendere i perseguitati politici. Il legale li ricevette nonostante l’ora tarda, li ascoltò e disse che, dati i metodi polizieschi in atto, gli accusati non sarebbero stati interrogati alla presenza di un avvocato e sarebbero stati pressati perché ammettessero di essere colpevoli. Egli, però, l’indomani sarebbe andato al carcere e avrebbe chiesto di parlare con i suoi assistiti.
Tornarono a casa a notte fonda col cuore più nero del buio pesto che c’era nelle vie della città per favorire i pestaggi dei renitenti al regime. Erano strade deserte, nessuno si azzardava a uscire senza un grave motivo, e s’imbatterono in una camionetta della polizia che sbucò improvvisa a una svolta, li abbagliò, si fermò e gli agenti chiesero che cosa cercassero a quell’ora. Horacio gli rispose che erano andati a trovare un avvocato, spiegandogli quanto accaduto ai loro familiari, certamente vittime, aggiunse, di una calunnia. Erano quattro, i poliziotti, e risero all’unisono, una risata così orrenda che a Estéla evocò quella che emette lo sciacallo quando sente odore di cadavere. Poi uno di loro, asciugandosi la sbavatura prodotta dal riso, disse: non serve, l’avvocato, se sono innocenti come dite, saranno rimessi in libertà.
La morte fu la libertà per mio padre! Esclama Estéla con voce incrinata e sosta un attimo, lo sguardo oltre il balcone, all’orizzonte. Poi beve un sorso d’acqua e riprende il filo.
I carcerati furono interrogati senza che fosse ammessa l’assistenza del difensore, il quale ebbe l’autorizzazione a incontrarli soltanto dopo alcune settimane uno per volta e nessuno di loro stava bene, difatti gli dissero di essere stati torturati, ma loro avevano continuato a dichiararsi innocenti.
Quando finalmente la moglie e le figlie di Esteban ebbero il permesso di vedere i prigionieri, si terrorizzarono per lo stato in cui erano ridotti. Estéban era pelle e ossa e aveva sul collo segni come di bruciature di cicca, ma al loro cenno interrogativo alzò lievemente le spalle a significare che era una cosa da niente. Estéla era quasi al terzo mese di gravidanza e quel giorno, appena arrivata a casa, ebbe una forte emorragia. Il marito l’adagiò sul sedile posteriore dell’auto e la condusse subito in ospedale ma non ci fu nulla da fare, il bambino era perduto. Rimase a letto per la sopravvenuta anemia, afflitta anche per le condizioni della madre che, caduta in depressione dopo la carcerazione del marito, peggiorava sempre. Le curava Juanita aiutata dalle vicine di casa, mentre Diego e Horacio andavano e venivano dall’avvocato cercando di sapere quando sarebbe stato possibile che qualcuno della famiglia fosse ammesso a visitare di nuovo i prigionieri, e quando sarebbe stato celebrato il processo. Niente, neanche l’avvocato riusciva a sapere qualcosa.
Quasi un anno trascorse nell’attesa della data del processo, finché un giorno arrivò a casa loro un messo portando una comunicazione della direzione carceraria: Esteban aveva avuto un infarto fulminante e i familiari potevamo ritirare la salma all’obitorio il giorno successivo. Si diedero da fare in cento modi per provocare un’inchiesta e tutte le autorità, ministro della polizia in testa, dapprima fecero finta di niente e poi risposero con le minacce.
Morayma non si alzò più dal letto, la nutrivano con la sonda e rimetteva tutto, cibo e medicine. Se ne andò anche lei.

Estéla e Juanita resistevano stremate nell’atroce dolore e nell’attesa della celebrazione del processo agli zii e all’amico Ramón. Sembrava balenare la flebile speranza che fossero liberati, poiché si erano dichiarati innocenti anche sotto tortura, e c’era anche la disponibilità di alcuni frequentatori dei concerti a testimoniare che nel locale non avevano mai notato nulla di sospetto e mai si era parlato di politica.
Quando finalmente arrivò il giorno del processo, gli imputati protestarono ancora di essere innocenti e i testimoni chiamati dalla difesa fecero le loro dichiarazioni e in buona fede, poiché veramente mai si erano accorti di nulla. Subito dopo, il pubblico accusatore chiese che fosse introdotto il testimone d’accusa tenuto in riserva per risolvere il processo nel modo consueto. Orrore! – esclama Estéla – era Diego, mio cognato. Entrò trascinato da due poliziotti e si abbandonò sulla sedia a testa bassa. Il presidente gli ingiunse di alzarsi e giurare di dire la verità, gli lesse l’articolo del codice penale militare che comminava pene severissime per gli spergiuri e per chi, avendo fatto una denuncia spontanea, poi la ritrattasse davanti al giudice. Juanita ed io eravamo lì, quasi di fronte a lui, e non volevamo credere ai nostri occhi. Lui cercò di alzarsi, ma dovettero tirarlo su gli agenti e reggerlo, tenergli la mano sulla Bibbia e lui lesse, no, farfugliò e poi, alla domanda del presidente di riaffermare quanto aveva esposto nella denuncia, si lasciò ricadere sulla sedia e raccontò a testa bassa, tirando su col naso, ma con dovizia di particolari. Disse che qualche volta, in casa, il suocero aveva espresso, davanti a lui, la propria avversione al regime, ma nel locale dei concerti non l’aveva mai sentito parlare di politica, e neanche gli altri due orchestrali e il proprietario, solo aveva notato che si scambiavano furtive occhiate d’intesa tra loro quattro quando entrava qualcuno della polizia. Una sera, finito il concerto e usciti gli spettatori, lui si era soffermato con i familiari a bere un bicchiere e aveva visto il suocero dirigersi alla toilette. Anche lui aveva bisogno di andarci e vi si diresse dopo un po’. Arrivato davanti alla porta, vide uscire il suocero con un pacco sotto il braccio avvolto in carta di giornale e si meravigliò perché era entrato senza niente. Ovviamente, non poteva averlo preso che nel bagno e Diego, entrato, guardò dappertutto per capire dove poteva essere stato messo. Niente, c’erano soltanto alcune piccole mensole con oggetti da toilette ma gli parve strano che ci fosse su una parete del bagno quel quadro raffigurante una scena di corrida e istintivamente lo spostò. Gli apparve un mucchio di mattonelle poste davanti a una sorta di buco, le rimosse notando che lo spazio evidenziato poteva contenere un fagotto simile a quello con cui era uscito il suocero. I suoi sospetti si rafforzarono, pertanto la sera del concerto successivo andò a verificare, vide un pacco avvolto in carta da giornale e l’aprì, c’erano dei fogli ciclostilati, ne prese uno, l’infilò in tasca e rimise tutto a posto. Lo lesse a casa, era un manifesto di propaganda sovversiva. Non dormì per tutta la notte, non sapeva che fare perché il colpevole era il padre di sua moglie, ma la mattina decise di portare il foglio alla polizia e denunciarlo per fermare quell’attività dannosa, secondo lui, al governo e al paese, di cui era sicuramente colpevole anche il proprietario del locale perché sarebbe stato impossibile praticare quel buco a sua insaputa. Dichiarò di non avere prove sugli altri imputati, ma di aver capito che fossero complici avendoli visti più volte, all’uscita dal locale, inforcare una bicicletta con una borsa a tracolla e dirigersi in un senso diverso della strada di casa. Evidentemente erano i corrieri dei messaggi. L’ipotesi di Diego fu accolta dai giudici che condannarono i tre a dieci anni di carcere con l’obbligo dei lavori forzati. Dopo un faticoso periodo in un cantiere edile in cui abbondava la manodopera dei detenuti, il direttore del carcere decise che era più conveniente valersi delle loro competenze e assegnò i due orchestrali come maestri di musica a un collegio per figli di militari e agenti di polizia e Ramón al bar annesso al penitenziario. Fu la loro salvezza: i due musicisti, sia pure chiusi nel cellulare, uscivano dal carcere tre volte a settimana e trascorrevano delle ore in ambiente accogliente e tra adolescenti che li rispettavano; Ramón stava dalla mattina alla sera nel bar frequentato sì da agenti di polizia, ma non tutti privi di senso di umanità.

Estéla ha la fronte imperlata di sudore e va a rinfrescarsi il viso, io sono quasi pentita d’averla indotta a ricordare episodi tanto terribili, ma lei torna a sedersi e continua, dicendo che lo fa perché è giusto che si sappia fin dove può arrivare una persona malvagia mascherata da agnello. Diego aveva denunciato il suocero per vendicarsi delle sue battute offensive, così aveva dichiarato alla moglie, quando lei, disperata, senza potersi dare pace, lo coprì d’insulti prima di andarsene da casa, ingiungendogli di non comparire mai più davanti a lei. E lui sparì dalla città e dal circondario non potendo più andare in giro senza che qualcuno non gli lanciasse un’ingiuria sottovoce. Gli era andata male. Secondo la ricostruzione della vicenda per opera dell’avvocato difensore, Diego, nel fare la delazione, aveva chiesto che il suo nome non fosse svelato, così sarebbe rimasto con la moglie ignara e non sarebbe stato esposto al pubblico disprezzo; e la polizia, convinta di riuscire a estorcere agli imputati una confessione, gliene aveva dato assicurazione ma, costato che gli accusati resistevano alle torture e continuavano a dichiararsi innocenti, lo teneva d’occhio per utilizzarlo comunque in caso di necessità. E quando il difensore chiese l’ammissione di testimoni a discolpa, a Diego fu imposto di tenersi a disposizione della polizia e il giorno del processo fu condotto in tribunale e tenuto chiuso in un ambiente da dove fu tratto e introdotto a forza in aula dopo le reiterate proteste di innocenza degli imputati e le testimonianze a loro favore. Dopo anni, un amico di Estèla la informò di aver saputo che lavorava come magazziniere nello spaccio militare di un luogo al nord del paese, ma gli abitanti lo schivavano per il fondato sospetto che continuasse a essere un informatore della polizia. E sempre solo, torvo e diffidente, camminava guardandosi continuamente alle spalle fino a fare un mezzo giro su se stesso, come i cani quando tentano di prendersi la coda in bocca.

Dopo la rivelazione dell’infamia del marito, Juanita era tornata a vivere nella casa paterna insieme alla sorella e dopo alcuni anni ebbe il conforto di ritrovare la propria creatività e di disegnare per un’industria di ceramiche artistiche fino a quando, quasi ottantenne, lasciò questo mondo. Estéla, come se le sue corde vocali non potessero più intonare alcuna armonia, aveva smesso di cantare rifiutando le proposte di vari locali andalusi di flamenco. Riusciva soltanto a trovare un po’ di sollievo leggendo poesia e quando si recava con il marito nel campo dell’allevamento dei cavalli. Lì, un giorno, assistendo alla nascita di un puledrino, pianse al ricordo della propria creatura perduta. Allora Horacio l’abbracciò, le disse di desiderare che lei mettesse al mondo un loro bambino nella speranza che il mondo diventasse umano. E il bambino arrivò, lo chiamarono Sirio, come la bianchissima stella che brilla più di tutte nelle notti invernali dell'emisfero boreale. In gennaio è sempre situata in un punto del cielo riquadrato da una finestra della casa di Estéla e lei, aspettando il bambino, la guardava come fosse un buon auspicio e pensava che se fosse nato un maschio l’avrebbe chiamato con quel nome derivato dal greco antico, che significa splendente, ardente, bruciante. Nacque Sirio e la sua presenza infuse alla madre la forza di ricominciare il proprio lavoro che non le mancò, contesa com’era da tutti i locali di flamenco, e quando gli zii e Ramòn ebbero scontato la pena, il caffè del Sacromonte riaprì, furono ingaggiati altri due musicisti e l’attività concertistica ricominciò con successo, sempre nell’attesa che un miracolo facesse risorgere la Spagna dalle ceneri. Sirio cresceva bene, gli piaceva studiare e quando giunse il momento di iscriversi all’università scelse di studiare medicina; Horacio continuava a occuparsi dei suoi cavalli e in casa la pace c’era, e l’armonia, il conforto degli affetti a lenire il dolore per la perdita delle persone care. Il tempo passava e la dittatura sopravviveva al crollo del fascismo italiano e del nazismo, come se l’odio della stragrande maggioranza della popolazione le fosse un alimento corroborante, ma finalmente giunse l’ora in cui il caudillo schiattò, dopo giorni di atroce agonia appeso a un gancio nel sacco dove l’avevano messo, sostenuto in posizione verticale con delle stecche, per farlo durare più a lungo possibile. Era il 20 novembre del 1975, l’inizio della rinascita della Spagna. La ricostruzione economica, morale e culturale procedette alacremente e la voglia di vivere era tale che le persone affollavano i locali notturni fino all’alba. Da allora, durante il tempo in cui continuò a cantare, Estéla, uscendo dal locale, guardava lo schiarirsi dell’orizzonte sempre pensando ai cari genitori e a tutti quelli che furono privati per sempre della luce dalla tirannia che prese in ostaggio la Spagna per trentasei anni.

Chiude il racconto dicendo di aspettare serenamente che il suo soffio vitale si confonda con l’energia dell’universo, come quello dei suoi genitori, di Juanita e di Horacio. Intanto, ha il conforto della vicinanza del figlio e le sue giornate sono allietate dalle frequenti visite di nipoti e pronipoti e dall’arrivo di un nuovo bambino per il quale è diventata trisavola. Poi, fissandomi intensamente, cita Montale, uno dei suoi poeti preferiti: “… nulla paga il pianto del bambino a cui è sfuggito il pallone tra le case.”

Roma, novembre 2012 Sara Zanghì



Note

1 Chiamato così per l’antica abazia, ancora esistente, edificata sulle rovine d’una moschea musulmana.

2 Pettinati con il mio pettine/ i miei pettini sono di zucchero/ chi si pettina con i miei pettini/ si succhia persino le dita.

3 Verde ti voglio proprio verde/Verde vento. Verdi rami. La barca sul mare / e il cavallo sulla montagna.

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