tag:blogger.com,1999:blog-75441978508268231252024-03-13T11:42:54.088-07:00Edizione dei NebrodiIl blog di Sara Zanghìlaura-cihttp://www.blogger.com/profile/12587159250603555673noreply@blogger.comBlogger3125tag:blogger.com,1999:blog-7544197850826823125.post-91559305870805478662012-11-25T06:11:00.004-08:002012-11-28T16:17:44.216-08:00Sotto la quercia Un vagito ruppe improvviso il silenzio. Pochi attimi e tacque. Caterina la Caprara<span style="font-size: xx-small;">1</span> si fermò sulla strada che delimitava un pendio di boscaglia degradante alle rive del fiume Aso e stette ad ascoltare, ma si udiva solo il gorgoglio delle acque. Sarà stato il grido di qualche animaletto, pensò la donna riavviandosi, ma ecco che il vagito tornò alto spegnendosi immediatamente e lei lasciò cadere dalle spalle la fascina di legna e s’inoltrò nella sterpaglia da cui le sembrava fosse venuto. Non cercò molto che riudì il pianto dietro di lei: si girò e tra gli arbusti sotto una quercia al margine della strada, vide un fagotto da cui emergeva il visetto di un neonato, gli occhi aperti e disperati. Oh, Gesù! Esclamò Caterina sollevandolo subito e, tenendolo in braccio, cominciò a correre verso casa sua situata in una frazione di campagna appartenente a un Comune del territorio dei monti Sibillini. La creatura teneva la bocca accostata al petto della donna che pensava fosse sfinita per la fame e anche per il freddo ancora notevole in quel luogo, nonostante la bella giornata di marzo. <br />
Correndo, in poco tempo arrivò a casa. <br />
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Il marito stava seduto accanto al focolare acceso e vedendola affannata e con quel fagotto strano tra le braccia, che è successo? Chiese, preoccupato.<br />
Poi, poi ti dirò! E, appoggiandola su una panca, liberò la creatura dai panni: oh, guarda, Brando, è una femminuccia! Tutta imbrattata, figlietta! Che delinquenti! Metti un catino d’acqua sul fuoco, la devo lavare! E sciogli un po’ di zucchero in un bicchiere d’acqua, è sfinita dalla fame! <br />
L’uomo eseguì. Lei immerse ripetutamente un pezzettino di tovagliolo nell’acqua zuccherata portandolo alla bocca della neonata che lo succhiò avidamente. Poi la lavò, l’asciugò con un telo scaldato davanti al fuoco, le mise un pannolino, l’avvolse in un lino e in uno scialle di lana e disse al marito: vai a prendere la bianca, portala qui. L’uomo la guardò come stralunato e uscì senza dire una parola tornando con una capra bianca. Come sempre prima della mungitura, Caterina accarezzò la capra, le diede una zolletta di zucchero e, accoccolandosi dietro di essa, vi situò sotto la bambina tenendola su un braccio e, sostenendole con l’altra mano la testina lievemente sollevata, le accostò le labbra a un capezzolo. Il miracolo avvenne: la neonata cominciò a succhiare e non voleva più mollare, ma la donna decise che per il momento doveva bastare e la staccò, la sollevò, aspettò che facesse il ruttino e la mise a letto sedendosi accanto. Rimase a guardarla finché la vide dormire e poi pianse di commozione.<br />
Quando, finalmente, la moglie gli raccontò tutto, Brando disse: non possiamo tenerla con noi, vado a parlare con i carabinieri.<br />
No, stai buono, la porterebbero in un asilo per bambini abbandonati.<br />
E allora?<br />
Allora la teniamo noi.<br />
E com’è possibile?<br />
Domani andrò a parlare con il parroco, ci conosce, sa che siamo gente onesta, ci penserà lui a farcela affidare. Porterò pure la bambina per farla battezzare. <br />
E che diciamo ai nostri figli?<br />
Gli diciamo che la provvidenza ha scelto noi per salvare questa creatura e che ci aiutino a crescerla… Ora però corri alla farmacia e compra un biberon e del latte in polvere, ma le daremo anche quello di capra, mi sa che le è piaciuto. Passa da casa di nostra figlia, dille tutto e che mi porti degli indumenti se ne ha ancora di quelli della sua bambina, altrimenti che li compri.<br />
Vorrei sapere chi è quella malafemmina che l’ha abbandonata! Disse l’uomo.<br />
Sarà una povera sventurata, che Dio la perdoni!<br />
Se fosse una di queste parti?<br />
Mah! Una donna incinta, non sposata, avrebbe attirato l’attenzione di male lingue… Certo però che questa innocente non può essere nata troppo lontano da qui, magari sarà stato in qualcuna delle piccole frazioni sperdute tra i monti. Ah, ora che ci penso: sai che uscendo sulla strada dal sentiero del bosco è passato veloce in bicicletta un tizio che andava nella direzione del luogo dove poi ho trovato la bambina? <br />
L’hai riconosciuto? <br />
E come facevo, andava come il vento, e non m’importava di sapere chi fosse un uomo in bicicletta.<br />
Se volevano liberarsene, perché non l’hanno portata all’asilo per bambini non voluti? <br />
Forse per non correre il rischio di essere conosciuti, la ruota non c’è più. <br />
L’indomani, Caterina si recò con la bambina dal parroco che la battezzò col nome di Bianca, come la capra che l’aveva allattata, e promise di recarsi quanto prima in città per dichiararla allo stato civile e parlare col magistrato dei minori. <br />
Intanto, Caterina e Brando si curavano della creatura che non aveva riportato alcuna conseguenza della sofferenza patita ed era vivace, digeriva bene il latte artificiale e anche quello che prendeva tutte le mattine dalla capra con il metodo inventato da Caterina che non voleva toglierle il piacere di succhiare direttamente da un seno. <br />
<br />
In quei giorni, nel secentesco palazzo comitale sito nel centro storico del medesimo comune, una giovanissima donna piangeva la sua bambina venuta alla luce per pochi istanti. <br />
Lena il suo nome, e toccante la sua storia. Aveva perduto la madre in tenera età e vissuto col padre - il ricco commerciante di Ascoli Piceno Luciano Damiani - fino al suo matrimonio con Nicolò, figlio del conte Ladislao Di Girolamo. Conosceva il marito sin da quando erano in tenera età, poiché il proprio padre, nato e cresciuto in quel paese da bambino povero, era stato compagno di scuola e amico di giochi del contino Ladislao, unico figlio maschio e ultimo di tre sorelle. Amicizia consolidata nel tempo anche se dall’adolescenza in poi si vedevano soltanto nei giorni festivi, essendo Luciano andato a lavorare in campagna e in seguito in città. <br />
Durante il periodo in cui il quattordicenne Luciano lavorava in campagna, era in corso la seconda guerra mondiale e lui conobbe un uomo che gli chiese di fargli da guida per indicargli le cascine dove poteva comprare polli conigli e viveri di ogni sorta da vendere al mercato nero in città e di aiutarlo nel trasporto delle merci. Gli dava una percentuale del guadagno, certamente meno di quanto gli sarebbe spettato, ma il ragazzo era contento di ciò che ricavava e soprattutto perché gli era venuta l’idea di dedicarsi, da più grande, al commercio.<br />
E mettendo da parte lira su lira, alla fine della guerra cominciò una ricerca in Ascoli Piceno nell’intento di comprare un magazzino per impiantarvi un negozio di cereali, legumi e altri generi alimentari. Lo trovò senza difficoltà perché la città, essendo stata adoperata come zona di quarantena, non aveva subito le distruzioni dei bombardamenti. Era un locale ampio e con retrobottega in un edificio centrale degli anni venti del Novecento, i prezzi dei tempi non erano alle stelle e Luciano poté acquistarlo con i suoi risparmi di quattro anni del suo lavoro come cercatore di viveri nelle campagne della provincia. Ormai conosceva vari produttori di grani e legumi e strinse accordi, ottenendo fiducia quando non poteva pagare al momento della fornitura, onorando però il debito con tempestività appena poteva. E poteva abbastanza agevolmente poiché sapeva guadagnarsi la clientela, non negava un credito a nessuno, in quei tempi di magra ma anche di persone oneste. Nel giro di un paio di anni, fu in grado di pagare le fatture degli acquisti anche sul momento e cominciò ad arricchire il negozio di nuovi generi, i cosiddetti coloniali e altre specialità allora rare che attiravano una clientela di benestanti. <br />
Guadagnava bene, tanto che a ventinove anni comprò l’appartamento al secondo piano del medesimo stabile e vi si trasferì in vista del proprio matrimonio con una bella ragazza della borghesia cittadina. Non proprio abbiente, per la verità, ma era innamorato e non gli importava la misura della dote, fidava sul suo lavoro. E volle un matrimonio con tutti i crismi, al quale invitò anche il suo nobile amico che ricambiò l’invito alle proprie nozze, avvenute il mese successivo.<br />
E sia l’uno, sia l’altro, a pochissima distanza di tempo, divennero padri: Luciano della bambina Lena; il contino del maschietto Nicolò.<br />
Dispiacque un po’ a Luciano non aver avuto un figlio maschio anche lui, ma c’era tempo per rifarsi. Purtroppo non ci fu per la perdita dell’amata moglie ammalatosi gravemente dopo pochi mesi dal parto. A Luciano sembrò mancargli la voglia di vivere e trascurava persino il lavoro, ma quando l’anziana domestica, una donna del paese amica di sua madre, lo richiamò alle sue responsabilità verso la bambina, reagì imponendosi lo scopo di dedicarsi al lavoro e alla figlia. Assunse una giovane bambinaia; era brava, ma accorgendosi che gli piaceva e lei era gentile con lui, per evitare tentazioni la licenziò: aveva giurato alla moglie morente che non avrebbe dato una matrigna alla loro figlia. Per la bambina, poteva bastare lui con l’aiuto della fedele domestica e della scuola materna, da poco istituita in città. <br />
Ogni sera, finito il lavoro, saliva subito a casa per cenare con la figlia, ed era lui a metterla a letto, a raccontarle le leggende dei Sibillini e leggerle i libri di favole che comprava su consiglio delle maestre della scuola materna. Piacevano anche a lui, le favole, da bambino aveva letto Pinocchio e qualche altra storia grazie ai libri prestatogli dall’amico contino, e gli piaceva riscoprire il piacere della lettura perduto da quel tempo. E poiché quando Lena si addormentava, gli venivano in mente pensieri tristi, cominciò a trascorrere le serate leggendo libri che si faceva consigliare da un libraio. Il primo che comprò fu sulla storia di Ascoli e gli piacque tanto che formò una piccola biblioteca del genere. <br />
Di tanto in tanto, nei giorni festivi, andava al paese con la bambina per trovare i propri genitori e l’amico d’infanzia, e ambedue conducevano i loro figlioletti a giocare nella campagna vicina. In quel periodo, per la morte del padre, l’amico aveva ereditato il titolo nobiliare, il palazzo e nient’altro: l’avito patrimonio, ridotto lungo il tempo sulla scia dei suoi ascendenti fannulloni che per mantenere il consueto tenore di vita continuavano ad alienare le terre, era definitivamente dileguato per la dote matrimoniale alle tre sorelle. Per fortuna del novello conte Ladislao, la moglie gli aveva portato in dote due fondi agricoli, modesti in verità, ma in tempi in cui i titoli nobiliari nudi e crudi cominciavano a essere considerati con noncuranza, una famiglia ricca non avrebbe dato in sposa la figliola a un nobile spiantato. Anche lui aveva avuto tutto quanto potesse desiderare un rampollo di rango, senza lavorare per la sicumera cui era stato abituato, e dopo l’amara sorpresa del niente rimasto, cercò di darsi coraggio decidendo di non mettere al mondo altri figlioli e di avviare agli studi l’unico perché acquisisse una professione. Ma già dalla scuola elementare il ragazzino Nicolò si rivelò disinteressato a qualsiasi apprendimento. Leggeva qualche fumetto, mai un libro, come gli bruciasse le mani e gli occhi; e l’unico sport che esercitava era la corsa in lungo consistente in un giro attorno al campetto della canonica. Superò la scuola media grazie al favore degli insegnati, torturati dalle preghiere del disperato conte, e poi fu mandato in un collegio di preti con annesso un istituto di scuola secondaria nella speranza che trovassero il modo di farlo applicare allo studio. Tornò a casa con un diploma confezionatogli dai religiosi in sette anziché in cinque anni di collegio che costarono la vendita di uno dei due fondi materni, comprato da Luciano a prezzo da lui stesso volontariamente accresciuto per venire incontro al suo amico. <br />
Il conte, riportando a casa il figlio dopo il glorioso diploma, lungo il tragitto gli disse: ti ho già spiegato che ci sono rimasti soltanto il palazzo e un modesto fondo agricolo la cui rendita basta appena ai bisogni quotidiani, perciò adesso m’interesserò per trovarti un impiego, magari alle poste dove ho un amico tra i funzionari dirigenti. <br />
A imprimere timbri tutto il giorno! Esclamò Nicolò con un sorriso sarcastico.
Allora vai a fare il commesso dal farmacista che ne cerca uno, se no a zappare la terra degli altri! Hai capito?<br />
Ho capito, vado in farmacia.<br />
Ci andò e gli piacque perché spesso si recava in città con la moto messogli a disposizione dal farmacista per prelevare al deposito i farmaci mancanti e gironzolava un bel po’ per i bar, passava dal negozio dell’amico del padre per un salutino e in tali occasioni Luciano gli faceva dei doni: un pacchetto di sigarette per lui e alcune scatole di cacao e caffè da portare a casa. E lo faceva sempre con delicatezza, dicendo che si permetteva perché erano le qualità pregiate preferite dalla contessa.<br />
<br />
Il conte si era un po’ rasserenato, quell’occupazione del figlio serviva almeno per le sue piccole spese personali e perché non bighellonasse a perdigiorno. Rasserenato soprattutto per la convinzione che l’unico modo per la garanzia dell’avvenire di Nicolò fosse un matrimonio di convenienza. E non ebbe dubbi nell’individuare come sua futura nuora la figlia del suo amico Luciano, notoriamente arricchito grazie ai guadagni dell’azienda commerciale, tanto lauti che aveva comprato due appartamenti in città dai quali ricavava le rendite delle pigioni e un paio di fondi agricoli oltre a quello venduto dalla contessa. Riteneva, il conte, fosse un progetto realizzabile perché sapeva che Luciano, pur producendo con il suo lavoro tanti soldi, non tendeva a diventare un Paperon de’ Paperoni, gli bastava accedere a una classe sociale superiore, certamente tramite un buon matrimonio della figlia. Che c’era di meglio, se non sposarla con un nobile? Lei avrebbe ereditato la sostanza materiale e lui il lustro del titolo comitale. E per giunta Lena era una bella ragazza e si capiva che piaceva a Nicolò, sebbene fosse un po’ intimidito dalla sua superiorità culturale. Anche Nicolò, considerava tra sé il conte, é un bel ragazzo e fine, veste con gusto e in definitiva un uomo è sempre un uomo e l’autorità è implicita nell’essere tale. <br />
Rimanendogli però qualche dubbio sulla fattibilità del suo progetto, decise di saggiare il terreno prima di parlarne a Luciano, e consigliò al figlio di iniziare una corte discreta a Lena. Quello disse che avrebbe tentato, la ragazza gli piaceva sin da quando erano bambini, a parte il caratterino ostico... <br />
Che vuoi dire, è una persona beneducata, cortese, come ti viene in mente il caratterino? Sbottò il padre.<br />
Rifiutava sempre quando volevo che facessimo la corsa a chi arrivava per primo al tronco del noce!<br />
E che centra? Sapeva che ti esercitavi al campetto della canonica e non voleva essere incastrata. Si rifiutava per intelligenza, non per cattivo carattere!<br />
Ah, sì, è intelligente e anche colta, va all’università e sta sempre a studiare.<br />
E chi ha impedito a te di studiare? Prenditela con te stesso! E, poi, ti senti cretino, forse?<br />
Certo no!<br />
E allora sappi che una donna intelligente si adatterà al marito per il bene della famiglia. E datti da fare, comportati in modo da dimostrarle il tuo interesse, ma con discrezione e senza fare il cascamorto!<br />
Ci proverò papà, vedrai. <br />
L’avesse visto quel figlio! Tutti i pomeriggi di sabato si recava al negozio del padre di Lena sapendo che era il giorno da lei dedicato a preparare la nota dei prodotti terminati. Arrivava azzimato come un damerino, si fermava un po’ nel negozio a scambiare qualche parola con Luciano e con i due commessi che gli davano poco conto e diceva: vedo che avete da fare e non voglio disturbarvi, passo un attimo nell’ufficio per un salutino a Lena. E si accostava alla porta semiaperta, bussava fievolmente, metteva la testa tra la fessura, sfoderava un bel sorriso e ciao, Lena, come va?<br />
Bene, e tu?<br />
Stanco morto! In quella farmacia lavoro come un mulo! <br />
E lei: siediti, riposati. <br />
Oh, grazie. Si sedeva fissandola muto per un po’. Poi guardava i poster della città affissi ai muri lodandone la bellezza e facendo gli occhi dolci, diceva: ti ricordi come ti facevo disperare quando giocavamo insieme?<br />
Ma no… facevi solo qualche capriccio.<br />
Talvolta, pur sapendo che lei non fumava, le chiedeva: vuoi una sigaretta?<br />
Grazie, no. Fuma pure.<br />
E lui: non ti voglio affumicare, vado fuori. Usciva e dopo aver fumato, tornava ad affacciare la testa nella fessura della porta: ciao Lena, corro al lavoro, ci vedremo. <br />
Tornato a casa trionfante, diceva al padre: sono stato a chiacchierare con Lena per più di un’ora. Credo ci stia!<br />
Bene, non mollare.<br />
Lena non aveva antipatia per Nicolò e gli voleva anche un po’ di bene, ma fingeva di non accorgersi della sua attenzione perché lo riteneva immaturo e fannullone, come lo definiva suo padre compatendo il conte. Perciò pensava non valesse la pena parlarne, avrebbe tenuto Nicolò a distanza e basta. Luciano, però, costatata la ripetizione rituale delle comparse del giovane, ne colse il significato e immaginò ci fosse lo zampino del conte. Con piacere, poiché le sue idee in merito coincidevano, senza che lo sapesse, con quelle dell’amico: Lena, con la dote che avrebbe portato, l’eredità che avrebbe avuto, la cultura acquisita, poteva fare un ottimo matrimonio, perlomeno con un professionista, e questo l’avrebbe elevata di ceto, sarebbe diventata una signora borghese. Però… però sarebbe potuta diventare contessa! Certo, Nicolò era un fannullone come tutti i nobili e, tranne il palazzo e quell’unica proprietà della madre, non avrebbe ereditato il becco di un quattrino. Li aveva lei però, i quattrini, e abbastanza, non era necessario averne all’infinito! Unire la ricchezza di Lena e il titolo nobiliare di Nicolò poteva essere un buon affare. Così Luciano terminava il suo ragionamento e aspettava che il conte gli facesse la proposta prima di parlarne alla figlia. <br />
<br />
Lena era del tutto ignara di quanto passava per la testa del padre e trascorreva il tempo tra lo studio, le lezioni all’università, il periodico aiuto settimanale al negozio, la collaborazione serale con il padre nella chiusura dei conti. Unici svaghi il cinema e le gite domenicali con le amiche con l’auto regalatale dal padre. Era una ragazza serena e anche allegra, eccetto i momenti di malinconia dovuti alla mancanza della madre che non poteva ricordare e ne conosceva la fisionomia, simile alla propria, soltanto per la foto del giorno delle nozze. All’amore pensava vagamente come a un evento futuro, era noncurante verso i corteggiatori che non mancavano, ma nessuno ancora l’aveva emozionata.<br />
Un giorno, mentre scriveva una richiesta di fornitura nell’ufficio della ditta, percepì uno sguardo su di sé, alzò gli occhi e incontrò quelli di Cecco, uno dei due giovani commessi del negozio, che la guardava imbambolato: belli i suoi occhi splendenti di blu intenso come di zaffiro. Si guardarono per un attimo, poi Cecco fece un sorriso e uscì con un cenno di saluto. Lei si portò una mano a carezzarsi il collo, come sentisse quello sguardo posato lì, e rimase ferma e sorridente per un po’, poi terminò la lettera, ne scrisse altre. All’ora di chiusura per la pausa pomeridiana, poiché il padre era fuori città e lei non aveva voglia di salire a casa, si preparò un panino imbottito e se ne andò in giro. Arrivata al ponte detto del diavolo, s’inoltrò per un tratto e, come faceva di solito, sostò a guardare nel torrente sottostante le piccole trote guizzanti dietro le giravolte della madre. Quel giorno, però, la scena che la prendeva era interiore: il momento degli incroci di sguardi tra lei e Cecco che riviveva con un’inquietudine nuova e bella. Cercava di capire ciò che le succedeva, quando udì dei passi dietro di lei, si voltò ed ecco Cecco che si ferma e dice: è la strada per casa mia. E lei, come riavendosi dalla sorpresa, esclama ah, sei tu!<br />
Egli, come gli fosse richiesto, precisa che casa sua è in provincia, qui abita in una stanza a pensione nel quartiere dopo il ponte e gli piace attraversarlo ogni giorno perché è bello. E poi, con un sorriso quasi saputo: è molto antico, vero? Mi hanno detto che c’è una leggenda che racconta perché è chiamato Ponte del diavolo.
Sì, e anche il perché dell’altro nome, Ponte di Cecco, riferito a Cecco d’Ascoli, l’architetto che l’ha costruito in una sola notte con l’aiuto del diavolo…<br />
In una notte, un ponte così! E sì che ci voleva il diavolo… ma chi era quell’amico del diavolo che si chiamava come me?<br />
Era un filosofo, astrologo e anche alchimista, fu accusato dall’inquisizione di eresia e finì bruciato vivo sul rogo. <br />
Che significa alchimista? <br />
Si chiamavano così gli antichi filosofi, astronomi, scienziati e medici empirici che tendevano a conquistare la conoscenza assoluta della realtà materiale e di tutte le attività della mente per raggiungere, mediante un processo di trasformazione interiore, la perfezione della personalità. Sperimentavano rimedi atti a curare le malattie e tecniche per trasformare i metalli comuni in oro, pensando derivasse dalla trasformazione che tali metalli subivano a contatto con il calore e l’umido delle profondità della terra. Pertanto facevano esperimenti mescolandoli a liquidi di sostanze varie mettendoli sul fuoco, e talvolta tutto saltava in aria! Così nel tempo intuirono che l’oro nasce in natura allo stato puro e per essi divenne un simbolo di perfezione. <br />
Oddio! Non ci ho capito niente! Esclama Cecco, portandosi una mano alla fronte. Mi perdoni, sono ignorante, ho preso la licenza media ma queste cose lì non si studiano…
Ti presterò un libro scritto da un medico e filosofo del 1500 che spiega tutti i segreti alchemici ed è stato un precursore della medicina moderna. Si chiama Paracelso. Se vuoi, leggilo, penso che ti piacerà. <br />
Sì, ma lei mi spiegherà le cose che non capirò?<br />
Certo, ci proverò, ma non darmi del lei, per favore, sono una tua coetanea!<br />
Con piacere, ma dove potremo parlare di queste cose? In negozio non è certo possibile!<br />
Ci vedremo di domenica, la mattina intorno alle dieci, qui vicino, al bar accanto al parco del forte Malatesta… <br />
Grazie, grazie per le cose belle che mi hai raccontato, ora devo scappare per aprire il negozio, si è fatto tardi! <br />
Andò via svelto, Lena si avviò a passi lenti, pensando con emozione alla prospettiva di trascorrere alcune mattine parlando con quel ragazzo desideroso di apprendere. <br />
L’indomani passò dal negozio, porse a Cecco l’opera di Paracelso e la domenica successiva s’incontrarono. Il giovane aveva letto tutte le notti fino alle ore piccole e seguendo gli appunti segnati su un quaderno, chiedeva spiegazioni o faceva commenti pertinenti e Lena, notando con piacere la chiarezza con cui si esprimeva, accontentava la sua ansia di conoscenza.<br />
Da quella domenica, lei divenne per Cecco “colei che mi dona la conoscenza”, così le diceva lui che, sempre più entusiasta, dichiarava di sentirsi riconoscente a lei come Paracelso alle donne sapienti che avevano contribuito alla formazione del suo sapere medico.<br />
Un mattino, appena seduti, aprì il libro e lesse un passo: “Colui che non sa niente, non ama niente. <br />
Colui che non fa niente, non capisce niente. <br />
Colui che non capisce niente è spregevole, ma chi capisce ama, vede, osserva. La conoscenza è congiunta all'amore, e chiunque crede che tutti i frutti maturino contemporaneamente, come le fragole, non sa nulla dell'uva”.<br />
Spero di capire almeno quanto basta per non essere spregevole, per sapere amare!
E così dicendo Cecco arrossì e abbassò lo sguardo. Lena sentì il proprio cuore accelerare i battiti.<br />
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Erano stati così felici i loro incontri domenicali che, quando esaurirono i commenti su Paracelso, decisero di continuare a vedersi conversando su altri argomenti. Lena era libera tutte le domeniche poiché da qualche tempo il padre trascorreva fuori la fine settimana, essendosi innamorato di una vedova di quarantacinque anni residente provincia e, ora che la figlia era cresciuta e autonoma, si sentiva libero di vivere una storia d’amore. <br />
Gli argomenti delle nuove conversazioni i ragazzi li trovavano facilmente, magari cogliendo l’occasione da un evento fortuito. Come il mattino in cui, nel parco dei loro incontri, osservando un picchio che imputava colpi di becco al tronco di un albero, Cecco chiese: perché il picchio è rappresentato nello stemma della nostra Regione?<br />
Per la leggenda riguardante le sue origini, per cui noi siamo chiamati anche Piceni. Ti presterò il libro che la racconta. <br />
Sì, grazie, lo leggerò volentieri, ma ora comincia a raccontarla tu, per favore.<br />
Sedettero su una panchina all’ombra dell’albero sul cui tronco incideva il picchio e Lena iniziò:<br />
La denominazione Piceni si trova in opere di storici e scrittori antichi che risalgono al secondo secolo a. C. Significa quelli del picchio, in latino picus, da cui il volgare piceni, appellativo usato dai romani per indicare i gruppi di Sabini che intorno al nono secolo a. C. migrarono nel territorio delle Marche odierne.<br />
I Sabini? Quelli cui i romani rubarono le donne per popolare il loro territorio? <br />
Sì, è una leggenda ma forse c’è qualcosa di vero perché in seguito alla fondazione della città la sua popolazione si formò con la fusione tra Romani e Sabini. I Sabini erano una delle antichissime genti stanziate fin da circa trentamila anni a.C. in un’area situata tra le regioni oggi comprendenti il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo, come testimoniano i resti d’insediamenti umani e di attrezzi in selce rinvenuti negli scavi archeologici della zona e databili in quell’epoca. Secondo le antiche fonti, i nomi Sabina e Sabini derivano da Saba, il presunto progenitore di quelle genti.<br />
Una popolazione per allora numerosa, formata da tribù che nel tempo si diffusero in vari territori dell’Italia centrale creando nuovi insediamenti o fondendosi con altri già esistenti. Per lo più erano gruppi di giovani non più sostenibili a carico delle tribù, che migravano annualmente in nuove terre, nel periodo detto della “primavera sacra”.<br />
Vari scrittori antichi ci hanno tramandato notizie sui costumi di questo popolo, del quale, ad es., Virgilio dichiara che “nessun altro degli antichi li eguagliò in giustizia, probità, amore per la patria, frugalità e pudore”; e Orazio scrive che le donne sabine erano considerate un modello di onestà e prudenza. Altri autori testimoniano che i Sabini erano abili agricoltori, producevano cereali e in particolar modo curavano la viticoltura, l'olivicoltura e qualche allevamento, tra cui quello dei tordi molto apprezzati dal mercato romano. Come altri popoli primitivi adoravano divinità, le principali erano Vacuna e Feronia, l’una dea dei campi e della natura e l’altra della fertilità. Credevano anche che alcuni animali fossero sacri.<br />
Secondo una narrazione tramandatasi oralmente per lunghi secoli e poi raccolta da scrittori dell’antico mondo greco e latino, intorno al nono secolo a. C., coincidente con l’età del ferro, a un gruppo di giovani sabini in cammino verso terre confinanti apparve un picchio che li precedette come a guidarli in una direzione. Giunti sulle basse pendici del monte Conero, il picchio si posò sul loro stendardo rimanendo immobile, ed essi pensarono fosse un’entità sacra che gli indicava così d’essere giunti nel luogo loro destinato dalla divinità: vi si fermarono e assunsero il picchio come loro idolo.<br />
Era un piccolo abitato esistente da circa quattrocento anni, fondato da esuli greci di Siracusa fuggiti dalla tirannia di Dionigi, scelto per l’insenatura marina riparata dal promontorio a forma di gomito, e perciò lo chiamarono Ankon, dal nome greco. I nuovi arrivati si mescolarono pacificamente con i precedenti abitatori, e intanto altri gruppi sabini continuavano a spargersi per i territori oggi marchigiani nei quali, come si evince dagli scavi archeologici, è certo vi fossero presenze umane già dell’età della pietra: abitatori delle grotte, in cui sono stati trovati resti di braci e ceneri, erano cacciatori e raccoglitori dei frutti spontanei della terra. All’arrivo dei Sabini, però, quei cavernicoli erano già diventati coltivatori allevatori pescatori artigiani, e scambiavano merci con altre zone; ma si trattava di pochi individui, presto fusi con gli immigrati sempre più numerosi che diedero impulso a tutte le attività, essendo abili da moltissimo tempo in tutti i settori della produzione e negli scambi commerciali non solo con l’Etruria e Roma, ma anche con i greci e altri popoli d’oltremare. <br />
In pochi secoli, trasformarono piccoli agglomerati in importanti centri e ne fondarono nuovi, come Novilara (nei pressi di Pesaro), Ancona, Belmonte; ma Ascoli fu l’epicentro e mantiene tutt’oggi la denominazione ‘Piceno’.<br />
Con il definitivo stanziamento dei Piceni, conclude Lena, la nostra regione divenne un’unità etnica e culturale, ma la sua storia era solo agli inizi… la troverai nel libro e dopo ne parleremo.<br />
Sì, ma da quando e perché il nome fu mutato in Marche?<br />
Dal millecinquecento tutte le zone al confine dell’impero di Carlo V furono denominate marche, dal tedesco mark. <br />
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Da quel mattino, per Lena e Cecco, il racconto del territorio diviene galeotto. Mentre ne seguono il filo, un sogno d’amore nasce e cresce nel loro animo, ma non ne parlano perché ambedue pensano che il padre di Lena si opporrà strenuamente alla sua realizzazione. L’espressione del loro sentimento passa solamente dall’incontro degli sguardi e da timidi sfioramenti delle mani. Lena, però, segretamente, va nutrendo la speranza che il padre, amandola tanto, riuscirà a vincere l’aspirazione che faccia un matrimonio importante e non si opporrà alla sua felicità. <br />
Così vanno avanti per mesi, finché un giorno la situazione muta. È un sabato pomeriggio, nel negozio c’è calma, i clienti hanno esaurito le esigenze la mattina, Lena prepara le richieste per i fornitori e Cecco le sta davanti dettando la nota di ciò che manca. Luciano scende sbarbato di fresco, vestito elegantemente e dice alla figlia: allora tutto a posto? Posso andare? <br />
Certo, porta i mie saluti a Palmira.<br />
Sì, lo farò, a domani sera. Prima di varcare la porta, si gira e raccomanda all’altro commesso di lasciare tutto in ordine.<br />
Lena e Cecco continuano il lavoro: lei seduta davanti alla macchina per scrivere, lui in piedi, accanto, tenendo in mano la lista. A un certo momento dice: è segnato un prodotto che credo ci sia ancora, aspetta un attimo che vado a controllare - e allunga il braccio per porgerle il foglio. Lei gli afferra la mano, lo attira a sé e lo abbraccia, lui la stringe forte e si baciano a lungo. Poi, fissandola intensamente, Cecco le dice: sono innamorato di te dal primo giorno che ti ho visto, ti amo immensamente, sento che tu mi ricambi, ma non c’è avvenire per il nostro amore. Tuo padre non consentirà che sua figlia sposi un commesso di negozio. Dobbiamo rimanere amici, vivere questo sentimento bello soltanto nell’anima! <br />
Ha la voce rotta e il volto bagnato di lacrime, lei invece ha atteggiamento fermo, determinato: ho pensato anch’io così, ma ora ho deciso che non sacrificherò noi due per i pregiudizi di mio padre. Gli farò sospettare di noi e, conoscendolo, so che mi farà qualche domanda e allora gli dirò che ci amiamo e lo persuaderò. Per l’affetto che ha per me, non mi vorrà condannare all’infelicità… e se insiste a opporsi, peggio per lui, gli dico che ci sposeremo anche senza il suo consenso e faccia quello che crede, anche privarmi dell’eredità perché potremo vivere guadagnandoci la vita lavorando! <br />
E tu faresti tutto questo, per vivere con me? <br />
Certo, e sono sicura che tu mi voglia, anche se fossi povera. <br />
Oh, Lena! Io non mi sono mai lamentato della mia condizione, ma sapessi quanto mi pesa adesso! Devo stare al mio posto.<br />
No, è assurdo, lascia fare a me, persuaderò mio padre. Anche lui è innamorato e capirà, ho intuito che desidera sposare la sua amante e gli ho già detto che è giusto lo faccia assicurandogli di non esserne gelosa. Sto aspettando il momento giusto per parlargliene.<br />
In quel momento entrò l’altro commesso a chiedere se poteva andar via poiché era ora di chiudere.<br />
Lena gli disse di abbassare la serranda a metà, loro avrebbero finito il lavoro.<br />
Il commesso salutò e uscì, loro tornarono ad abbracciarsi. Erano stretti così quando Lena sussurrò a Cecco: ti lascio la porta aperta, alle undici vieni da me.
Cecco arrossì: e Maurina?<br />
Non ti preoccupare, va a letto presto, dorme profondamente fino alle cinque del mattino ed è anche un po’ sorda. <br />
Sei certa di volere che venga? Temo sia una cosa sbagliata! <br />
Mi ami?<br />
Sicuro!<br />
Credi che ti ami anch’io?<br />
Sì.<br />
Allora non è una cosa sbagliata.<br />
<br />
Fecero all’amore quella e altre notti sabatiche. Il lunedì successivo alla quarta, Luciano ebbe una visita dell’amico conte che gli chiese la mano di Lena per il figlio a suo dire innamorato pazzo della ragazza, ma aggiungendo: conosci la mia situazione economica, perciò decidi tu, non mi offenderò se rifiuti la proposta.
E Luciano: stai tranquillo, accetto, ma Lena deve essere libera di decidere liberamente e non voglio pensi che l’iniziativa venga da noi. Perciò deve essere Nicolò a dichiararsi a lei.<br />
Giusto, lo farà, assicurò il conte.<br />
Nicolò, consigliato dal padre sul comportamento da tenere e contento della prospettiva di poter sposare Lena che gli piaceva veramente, si attenne alle istruzioni e continuò a corteggiarla con maggiore insistenza. La ragazza, però, non potendo concepire che il padre fosse contento che lei sposasse un fannullone e quindi non sospettando dell’accordo intercorso tra lui e il conte, decise di interrompere il proprio atteggiamento passivo e tagliare il filo senza lasciar passare altro tempo. E un pomeriggio, non appena il giovane arrivò a casa, dove ormai andava a trovarla in qualsiasi giorno della settimana, gli disse: Nicolò, sai che ti voglio bene sin da quando eravamo bambini, mi sei caro come amico, ma non posso accettare la tua corte perché non ti amo, sono innamorata di un altro.<br />
Egli si levò di scatto avvampando, poi impallidì, di nuovo il suo viso divenne più rosso del fuoco e quasi gridando chiese: e chi è?<br />
Non deve importarti, non sono tenuta a dirtelo.<br />
No? E perché?<br />
Perché è affar mio, non tuo.<br />
È più bello di me? Più intelligente?<br />
No, è un altro e basta. Niente di meno e niente di più.<br />
Ah, qui sbagli: sicuramente qualcosa di meno avrà, il titolo nobiliare, ad esempio.
A me non importa del titolo.<br />
Dei soldi sì, vero? <br />
Neanche, li ho io.<br />
Allora non ha neanche i soldi e gli importano i tuoi!<br />
Lena pronta gli rispose: la caccia ai soldi la fai tu e non me ne importerebbe se ti amassi, ma non è così. Se ti va, amici come prima, a me farebbe piacere che continuassimo a esserlo.<br />
Nicolò ormai era terreo, si girò verso la porta, la raggiunse con due sgambate e uscì. <br />
Lena rimase turbata perché le dispiaceva anche per il conte immaginando che conoscesse le intenzioni del figlio e temeva che si guastasse l’amicizia cui il padre teneva tanto, quindi pensò di raccontargli tutto subito, in modo di avvertirlo e avrebbe colto l’occasione di informarlo di amare Cecco pure a costo di un putiferio, ma manteneva la certezza di riuscire a convincerlo. Scese in negozio per chiedergli di salire un momento a casa, ma c’erano vari acquirenti serviti dall’altro commesso, il padre stava alla cassa e vedendola le disse: dammi il cambio, per favore, così aiuto a servire, è più di un’ora che Cecco è andato a fare una commissione e non è ancora tornato. <br />
Lontano?<br />
No, doveva portare un pacco regalo commissionato da un cliente a casa del dottor Sabatini, dieci minuti da qui con la bicicletta, e si è perduto per la strada! <br />
Perduto per la strada! Parole che penetrarono come un chiodo nel cuore di Lena. Impallidì, gocce di sudore le imperlarono la fronte, le tremarono le gambe e per salire sulla pedana della cassa dovette tenersi al ripiano. Il padre se ne avvide e le chiese che c’è, stai male? Lei ebbe un soprassalto come si svegliasse da un incubo, respirò profondamente, si terse il sudore, disse niente, è passato. E per almeno mezz’ora stette ancora lì a denti stretti lanciando occhiate alla porta e finalmente, rimasta nel negozio una sola cliente, disse al padre: puoi tornare alla cassa così vado a vedere che è successo?<br />
Non ti muovere, ci vado io. <br />
Mentre si avviava alla porta entrò un vigile urbano, cliente del negozio: Signor Damiani, Cecco è stato investito da una macchina, è stato portato in ospedale con un’ambulanza, l’ho accompagnato io.<br />
Come sta? Chiesero all’unisono padre e figlia, attoniti.<br />
Non bene… stava attraversando la strada con il verde ed è arrivata a velocità un’auto guidata da un folle che, come non avesse visto il rosso, gli è piombato addosso… Cecco è saltato in aria, ricadendo a terra ha sbattuto forte la testa, povero ragazzo! <br />
È grave? Chiese allarmato Luciamo, trattenendo tra le braccia Lena che, lasciata la cassa, gli si era aggrappata e non riusciva ad articolare verbo.<br />
È morto, purtroppo! <br />
<br />
Lena cadde in una profonda crisi depressiva, al padre disperato disse che lei amava Cecco e senza di lui non voleva più vivere, e il primo pensiero che passò per la mente di Luciano fu: meno male che ci ha pensato il conducente pazzo a levarlo di torno, altrimenti l’avrei buttato nel lago di Pilato!<span style="font-size: xx-small;">2</span> Tuttavia, non perdette tempo per aiutare la figlia e la affidò a una psicologa. <br />
Dopo qualche settimana alla prostrazione psichica si aggiunsero disturbi fisici che la psicologa sospettò fossero sintomi di gravidanza. Provvide agli accertamenti del caso e non si sorprese che Lena, saputo l’esito positivo, le dicesse: è un dono lasciatomi da Cecco, la nostra creatura mi riporterà la sua presenza, e dal quel giorno cominciò a migliorare. Con le dovute precauzioni, la psicologa informò Luciano che sbottò: fino a questo punto, mi ha ingannato mia figlia! <br />
Che c’entra l’inganno? Amava quel ragazzo e temeva che lei fosse contrario, aspettava il momento buono per confessarglielo… Pensi piuttosto che questo è un evento fortunato che la farà guarire dalla depressione.<br />
Dopo avere ascoltato le argomentazioni della dottoressa, Luciano disse: va bene, è successo così, ma mia figlia ora mi deve dare retta. E le espose il piano che gli balenava in mente, pregandola di fare a tempo opportuno, se necessario, opera di persuasione con Lena perché lo accettasse.<br />
Lei prenda l’iniziativa cui accenna e, se è realizzabile, io ne parlerò a Lena, ma non tenterò di coartare la sua volontà.<br />
E se non accetta?<br />
Non è la fine del mondo avere un figlio fuori dal matrimonio.<br />
Già, un figlio senza padre, un bastardo!<br />
Lei è un uomo intelligente, deve vincere questi pregiudizi. In quanto alla mancanza del padre, se non dovesse esserci un sostituto, più fare benissimo lei da padre al nipotino.<br />
Vedremo, ma lei mi garantisce che Lena uscirà dalla depressione?<br />
Ne sono certa, sta già meglio. Lei continui a starle vicino.<br />
Luciano non perdette tempo. Si mise in macchina e andò a trovare il conte, gli raccontò tutto e poi gli disse: se tuo figlio tiene veramente a Lena e alla sua dote, la sposa subito, dichiarando d’essere il padre della creatura che lei aspetta. Così si sistema lui, Lena e l’innocente che nascerà. A questo punto porse al conte un foglio con l’elenco dei beni di cui avrebbe dotato Lena alla data del matrimonio: due fondi agricoli, una villetta a due piani consistente in quattro appartamenti in zona panoramica della città, un pacchetto di titoli di stato, più un sostanzioso conto corrente bancario che sarebbe stato intestato a Nicolò. <br />
Era consapevole di star comprando un marito alla figlia, ma non si vergognava: riteneva fosse una necessità, e che in fondo si trattava di uno scambio perché Lena avrebbe guadagnato notevolmente in status sociale. Anche il conte fece il medesimo pensiero e gli parve una fortuna vendere tanto caro il figliolo buono a niente, grazie al titolo nobiliare. <br />
Si guardarono fissamente e Luciano disse: se pensi che non sia un accordo possibile o se tuo foglio non acconsente, fa niente, noi saremo sempre amici fraterni.<br />
Per me va bene, rispose il conte mettendogli una mano sulla spalla, parlerò a Nicolò e ti farò sapere.<br />
E dovrei accollarmi il figlio di un altro, di uno per il quale lei mi ha rifiutato! Sbottò Nicolò.<br />
Fai come vuoi, ma è bene ti metta in testa che non avrai l’occasione di accasarti in modo conveniente per assicurarti il futuro, sai che ho provato a chiedere per te la mano della figlia dell’avvocato Pacifici - molto meno benestante di Lena e per giunta brutta, come tu dicevi - e ne è venuto un rifiuto. Lena è bella, ricca, ti ha sempre voluto bene e anche se ha commesso una leggerezza, non ha fatto un torto a te perché non aveva impegni con te. Rifletti e dammi una risposta domattina.<br />
Va bene, papà, mi hai persuaso. <br />
Sia chiaro però che la devi rispettare, quella ragazza, non combinare guai, intesi?<br />
Quali guai? E perché? <br />
<br />
La psicologa, avuto l’incarico, parlò a Lena della disponibilità di Nicolò, avvertendola che il padre avrebbe rispettato l’eventuale decisione negativa ma Lena accettò senza batter ciglio: si sentiva colpevole verso il padre, responsabile verso la creatura che portava in grembo e grata a Nicolò anche se immaginava che lui accettava di accollarsi la paternità per la consistenza della dote che lei avrebbe portato. <br />
Nel giro di pochi giorni, la contessa fece circolare tra le sue amiche la notizia che suo figlio e Lena si sarebbero sposati subito perché, fidanzati ancora non formalmente, avevano avuto fretta di amarsi e la ragazza era in attesa. Perciò nessuno si meravigliò delle nozze prive di fasto e d’invitati come volle Lena.<br />
Gli sposi si stabilirono al primo piano del palazzo comitale tradizionalmente assegnato al primogenito il giorno delle nozze, dove avrebbe abitato con la famiglia finché fosse vissuto il proprio padre, e dopo, ereditando il titolo, sarebbe passato al piano nobile, il secondo. Perciò tutte le stanze, dalle quali erano passate generazioni di novelli sposi, erano arredate con mobili d’epoca, pregevoli ma piuttosto grevi. Questa, perlomeno, era l’impressione che suscitavano in Lena, ma le ampie vetrate le offrivano la vista sul paesaggio che dalle alture montane scende alle terre delle rive adriatiche in un susseguirsi di verdi colline e valli solcate dal lungo fiume Aso serpeggiante tra sponde di pioppi. Sperava che tanta bellezza lenisse nel tempo il dolore ancora cocente per la tragica perdita di Cecco e attendeva con ansia la nascita della creatura come dono da lui lasciatole.
Nicolò si comportava bene, era attento, affettuoso, la mattina andava nella proprietà sulle pendici di una collina sottostante, facente parte della dote di Lena, per controllare i lavori per una piantagione di vigneto. Vedi? – diceva la contessa alla nuora - con la tua vicinanza Nicolò ha messo la testa a posto, e Lena apprezzava che lui occupasse utilmente il tempo.<br />
Le doglie le arrivarono di notte: Nicolò avvisò la madre e corse a chiamare l’ostetrica. Il parto fu abbastanza travagliato, il cordone ombelicale si era attorcigliato al collo della creatura che nacque piuttosto cianotica, ma riuscì a respirare e pianse: era una bambina. Fu mostrata a Lena che alzò una mano per sfiorarle la testina e, mentre l’ostetrica continuava ad accudirla, la nonna portò la bambina di là, la bagnò, le mise gli indumenti preparati e l’adagiò nella culla. La bambina vagì ancora per un po’, poi si addormentò. Era l’alba e Nicolò pregò la madre di andare a riposare, accanto alla bambina sarebbe rimasto lui. <br />
Finite le incombenze, la levatrice andò via, doveva visitare una paziente, sarebbe tornata più tardi. Lena, sfinita e ormai serena, si addormentò.<br />
<br />
Erano circa le undici del mattino, Lena dormiva ancora e la contessa guardava dalla finestra il marito che andava avanti e indietro sul margine della piazza costeggiante la strada. A un tratto arrivò l’auto di Nicolò fermandosi a lato del conte che vi si avvicinò subito: scambiarono qualche parola e si avviarono al portone di casa. Nel medesimo tempo la contessa udì un lamento e si avvicinò al letto della nuora, le fece una carezza e quella chiese: posso vedere un momento la bambina? La donna, titubante, rispose: aspettiamo un po’, sta arrivando Nicolò è per le scale. <br />
Seguito dal padre, Nicolò entrò, si avvicinò subito a dare un bacio a Lena e lei, notando la sua espressione sconvolta, chiese: Che c’è?<br />
Lui si chinò, le prese dolcemente le guance tra le mani e, con le lacrime agli occhi, disse: la bambina è in incubatrice, questa mattina mi sono accorto che respirava con difficoltà e l’ho portata subito in ospedale. <br />
E ora, Dio mio, ora come sta? - quasi gridò Lena tentando di sollevarsi – È in pericolo?<br />
Speriamo di no, cerca di stare tranquilla, ti prego, è in buone mani. Io torno subito in ospedale, sono venuto per avvisarti, con te rimangono mamma e papà. <br />
Le diede un bacio e uscì velocemente.<br />
Lena si abbandonò a un pianto irrefrenabile e invano la suocera tentava di farle coraggio ripetendo che i neonati hanno di frequente problemi simili, specie se hanno sofferto per il cordone ombelicale attorcigliato al collo, ma niente di grave, nell’incubatrice si riprendono sempre. Occorreva soltanto un po’ di tempo. <br />
Ore in quell’attesa, alla quale partecipò anche l’ostetrica, tornata dalle sue incombenze, che non si dava pace: lei aveva immediatamente liberato il collo della bambina, l’aveva rovesciata a testa in giù e aveva pianto, segno che l’aria era entrata nei polmoni. E la contessa a dire sì, aveva pianto pure mentre la bagnava, e ancora un po’ nella culla prima di addormentarsi. La difficoltà respiratoria le era venuta nel sonno, se n’èra accorto Nicolò ed era salito a chiamarla dicendole di scendere da Lena che lui sarebbe subito corso a portare in ospedale la bambina.<br />
Alle sette della sera arrivò Nicolò a braccia vuote e le aprì sconsolato; poi, quasi cadendo addosso alla moglie, piangendo disse: l’abbiamo perduta. <br />
Lena gettò un grido e rimase immobile, gli occhi sbarrati al soffitto. Il conte corse a chiamare il medico che arrivò subito e le praticò un’iniezione per farla addormentare. Verso la mezzanotte, avvertito da un messo del conte, arrivò Luciano che, vedendo la figlia sprofondata nel sonno indotto dal farmaco e pallida come un cadavere, ebbe un malore, ma per fortuna il medico era ancora lì e lo soccorse. <br />
Il mattino Nicolò tornò a uscire per provvedere alla sepoltura della bambina. Insistette perché nessuno lo accompagnasse, avrebbe risolto tutto da solo, non usava fare un funerale per un neonato. E aveva già organizzato tutto il giorno prima quando, tornato in ospedale e saputo che la bambina era morta e l’avevano portata in obitorio, lui aveva preso accordi con una ditta funebre che avrebbe inumato il feretro nella tomba di famiglia, nel medesimo loculo dove si trovava la salma della mamma del conte.<br />
<br />
Gli abitanti di quel tranquillo paese sono sconvolti: nel medesimo giorno, la contessina Lena dà alla luce una bambina che muore dopo alcune ore, e Caterina la Caprara trova una neonata abbandonata sotto una quercia al margine della strada. Non si parla d’altro, è un ribollire di commenti mescolati alla pietà per la madre che piange la perdita della sua creatura e all’indignazione per la sconosciuta che ha gettato la propria alle erbacce. Tutti si chiedono chi sarà mai quella donna snaturata e l’ipotesi più accolta è che si tratti di un parto clandestino avvenuto probabilmente nella frazione più marginale del paese, isolata tra i boschi e abitata da porcari e carbonai. Finché comincia a circolare una storia: la scellerata è la guardiana di un branco di maiali, appartenenti al salumificio locale, allevati allo stato brado. Una ragazza alta e grossa, proveniente dalle montagne della Laga, che vive nel bosco con quegli animali e dall’autunno all’inizio dell’estate sta avvolta in un enorme mantello di montone. Dorme nel fienile sopra la stalla, dove di notte sono ricoverati i maiali. E lei è altrettanto selvatica, non parla con nessuno, ma più volte i boscaioli hanno visto uscire all’alba dal fienile il figlio maggiore del proprietario del salumificio. Chiaro! Sarà rimasta incinta e ha nascosto la pancia in quel mantello smisurato. Avrà partorito da sola come le maiale e subito il ganzo avrà messo la neonata nel cesto della bicicletta e l’ha abbandonata là, dove l’ha trovata Caterina che, difatti, ha visto passare veloce un tizio in bicicletta, e solo dopo ha pensato che avrebbe potuto essere quello che portava la bambina. Non l’ha riconosciuto, ricordava solo che aveva una giacca scura con il bavero alzato e un berretto. <br />
Vera o inventata, la storia fila liscia per tutti, anche per il padrone del salumificio che licenzia la mandriana nonostante lei, pur ammettendo di aver avuto rapporti sessuali con suo figlio, neghi giurando su tutti i santi che mai è rimasta incinta. Anche il giovane, interrogato dai carabinieri e dal parroco, giura di non aver commesso quell’infamia e se ne va dal paese. Per il dolore di non essere creduto, dichiara lui, ma per la gente la sua fuga è una conferma del misfatto. <br />
In quei giorni parroco si recò allo stato civile per l’iscrizione della bambina nel registro delle nascite e il funzionario, nell’apprendere come e dove era stata trovata, le attribuì il cognome Quercia che al parroco parve una buona idea e si fece rilasciare il certificato di nascita per portarlo al magistrato dei minori e proporgli l’affidamento della bambina a Caterina. Strada facendo ebbe un’illuminazione e tornò al paese, chiamò Nicolò e gli disse: tua moglie soffre per aver perduto la figlia e, come saprai, una bambina è stata abbandonata e trovata dalla Capraia che desidera averla in affidamento, ma io penso che la potreste prendere voi. Un’opera buona che aiuterebbe tua moglie a trovare consolazione.
E Nicolò: come può consigliarmi una cosa simile! È un’innocente, ma ha il sangue dei delinquenti che l’hanno messa al mondo e gettata… non posso rischiare d’allevare una bambina con un’eredità simile! E poi, Lena ed io potremo mettere al mondo tutti i figli che vorremo, basta aspettare il tempo necessario perché lei possa portare avanti un’altra gravidanza.<br />
Va bene, come vuoi, ma alleggerisci la testa dai pregiudizi!<br />
Il parroco si occupò per soddisfare il desiderio di Caterina e la bambina fu affidata a lei e al marito che continuarono a curarsene amorevolmente, estranei al rompicapo collettivo di sapere da chi e dove fosse venuta al mondo. Al tempo opportuno le avrebbero detto che era stata raccolta sotto la quercia, dono della provvidenza per arricchire di gioia la loro vita.<br />
I loro due figli, accasati e con prole, non ne furono gelosi, forse perché non avevano da temere sottrazioni ereditarie, vivendo i loro genitori soltanto di lavoro; anzi, furono contenti per il loro esempio, non pagabile eredità morale.
Lena continuava a star male, si nutriva appena nonostante le insistenze dei familiari, stava tutto il giorno dietro i vetri della finestra come guardasse il vuoto, la notte piangeva anche nel sonno.<br />
Niente sapeva della bambina abbandonata, tutti si guardavano bene dal raccontarle una storia simile e soprattutto Nicolò che, conoscendola, temeva che le venisse in mente la medesima idea del parroco. Perciò quando Luciano, preoccupato delle condizioni della figlia, riportò il parere della psicologa secondo cui il trasferimento in città avrebbe potuto aiutarla a uscire dall’isolamento, Nicolò fu pienamente d’accordo.<br />
Si stabilirono nella villa dotale di Lena che, con l’aiuto della psicologa e la vicinanza delle sue amiche, cominciò a risalire la china, riacquistando progressivamente i propri interessi. Dopo due anni, si mise in attesa di una gravidanza che non arrivò, evidentemente per sterilità di Nicolò attribuita dalla madre al fatto che aveva avuto la parotite a diciotto anni. Luciano conosceva una famiglia di contadini che aveva preso con sé la nipotina di appena un anno, orfana dei genitori essendo morto il padre prima che nascesse e la madre in seguito al parto, e ne parlò con Lena che pensò subito di adottarla. Fecero la proposta allo zio che, avendo già il carico di cinque figli, accettò volentieri e per Lena fu come una vera grazia. <br />
L’adozione dell’orfanella suscitò pettegolezzi tra i paesani di Nicolò: come mai una coppia che aveva già generato invece di mettere al mondo altri figli ricorreva a un’adozione? Le ipotesi erano varie: forse una malattia sopraggiunta alla moglie o al marito, oppure, chi sa, quella bambina morta a poche ore dalla nascita non era figlia di Nicolò! La contessa, informata dei pettegolezzi da una sua amica, non ebbe difficoltà a correre ai ripari posticipando la data della malattia patita dal figlio e, sicura che la notizia sarebbe corsa veloce, rispose: purtroppo, dopo pochi mesi dal parto di Lena, Nicolò è stato colpito da una parotite la cui conseguenza è stata la sterilità. <br />
Dell’episodio non si parlò più, archiviato dai paesani insieme al precedente della bambina abbandonata che rimase sconosciuto a Lena cui il tempo aveva sanato la ferita dei tragici eventi che l’avevano colpita, ma restava la cicatrice a richiamarne il ricordo. <br />
Contento Nicolò, divenuto tanto attivo da sembrare un’altra persona: continuava ad andare ogni giorno in campagna a seguire i lavori agricoli e la cura della coppia di purosangue acquistati per creare un allevamento di cavalli; e soddisfatti per la conversione alla saggezza del loro figlio il conte e la contessa. <br />
Tranquilli vivevano Caterina e Brando, gratificati dalla presenza affettuosa della bambina Bianca a loro affidata e lodata dalla maestra per sua intelligenza e l’amore allo studio. Una bambina anche serena, pur sapendo l’avventura occorsole appena nata. Gliel’aveva raccontato Caterina, credendo fosse meno traumatico apprendere una verità dolorosa quando si è in un’età in cui si confondono, come in un dormiveglia, realtà e fantasticheria; e lei, nel sentire d’essere stata trovata sotto una quercia, aveva immaginato fosse una favola. Poi capì che era verità e istintivamente l’accettò come possedesse una saggezza innata: abbandonata da chi non l’aveva voluta, era stata accolta e salvata da Caterina, e amata da lei e Brando, dai loro figli e nipoti. Perciò viveva contenta nella cascina di campagna con gli anziani coniugi che le avevano insegnato a chiamarli nonni, spesso si accompagnava con piacere all’una o all’altro nel portare a pascolo le capre, e la sera leggeva per loro ad alta voce le storie dei libri che prendeva in prestito dalla piccola biblioteca scolastica, e anche regalatole dalla maestra.<br />
E fu la maestra che, subito dopo il conseguimento della licenza elementare, consigliò a Caterina di togliere Bianca dall’isolamento della campagna e farle frequentare la scuola media in città presso il collegio gestito dalle monache, la cui retta non era alta e dove avrebbe potuto continuare negli studi superiori.
Caterina ci pensò, e dopo aver raccontato quanto consigliatole dalla maestra ai figli e al marito, decise di non chiudere la bambina in collegio e disse a Brando: siamo anziani, ormai, io non ce la faccio più ad andare appresso alle capre e a maggior ragione tu che soffri di artrosi. Abbiamo i risparmi del nostro lavoro, la pensioncina di anzianità, vendendo le capre ricaveremo un buon gruzzoletto e senza disturbare i nostri figli che si dicono disponibili ad aiutarci, possiamo affittare un piccolo appartamento in città per trasferirci lì e fare studiare questa creatura che ci ha mandato il Cielo in modo che abbia un avvenire migliore di quello che avrebbe restando qui.<br />
Sì, hai ragione, però mentre tu avrai sempre i lavori di casa, io come passo il tempo senza far niente? <br />
Senza far niente! Potrai occuparti di fare la spesa, e andare anche nell’officina meccanica di nostro figlio, che ti troverà qualcosa da fare. E poi, te ne vai in giro per la città, vedi cose e soprattutto cammini che ti farà bene, come dice il medico. <br />
Va bene, Caterina, come vuoi tu, ma per le capre mi dispiace.<br />
Anche a me, però per tenere le capre non possiamo sacrificare l’avvenire della bambina.<br />
Caterina chiese aiuto al figlio per trovare un piccolo appartamento e nel giro di un paio di settimane, vuotarono la cascina dei mobili, la restituirono al proprietario e si trasferirono in città. Bianca, meravigliata per la presenza di tante chiese antiche, e felice per la bellezza delle opere d’arte che scopriva, all’inizio dell’anno scolastico cominciò a frequentare la prima media in una scuola pubblica.
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In vari luoghi delle Marche era ancora in uso la tradizione antica, di derivazione pagana ma assimilata dal cristianesimo come altre, di celebrare il 21 marzo di ogni anno la festa della primavera.<br />
Ad Ascoli Piceno si teneva nel chiostro maggiore dell’antico convento dell’Annunziata tramite una rappresentazione scenica interpretata dalle allieve della scuola media, vestite con una tunica rosa e il capo adornato da una corona intrecciata di roselline narcisi viole e altri fiori di stagione. Eseguivano una danza sul motivo di una canzone popolare inneggiante alla bella stagione attorno a una giovinetta che la simboleggiava. Poi, da un altoparlante, un dicitore recitava poesie in tema e in seguito le ragazzine intonavano canzoni popolari. Al termine della rappresentazione, scendevano dal palco dirigendosi tra il pubblico seduto attorno per regalare la propria corona a una donna scelta da ciascuna di loro.<br />
Quel giorno, era il 21 marzo del 1988, tra le piccole attrici c’era anche Bianca che, terminata la rappresentazione e scesa dal palco per il dono rituale, incontrò lo sguardo di una signora e si fermò, si tolse la corona e gliela porse con un lieve inchino, fissandola intensamente. La ricevente era Lena che, nel guardarla, ebbe un senso d’irrealtà: il suo visetto era identico a quello di Cecco ragazzino che figurava in una foto da lei conservata tra le sue cose più care: medesimi gli occhi dalle lunghe ciglia ricurve, le alette del naso, la linea armoniosa della fronte… E i capelli, Dio! Quel biondo di spighe mature e la lieve ondulazione erano esattamente uguali ai propri. Prese la corona le fece una carezza e, trattenendo il tremito interno, le disse: grazie per il bel dono, come ti chiami? Non ti ho mai visto prima tra gli allievi delle elementari, andando a prendere mia figlia.
Bianca - rispose la bambina sorridendo timidamente – Bianca… prima abitavo in campagna e ora sto qui, i nonni mi hanno portato a studiare in città.<br />
E i tuoi genitori sono rimasti in campagna?<br />
Bianca si fece seria, esitò un attimo e poi rispose: no, non lì ho i genitori.
Lena pensò fosse orfana e, pentita della domanda, mormorò mi rincresce e cambiò discorso: ti piace leggere?<br />
Sì, molto.<br />
Ti regalerò un libro, hai preferenze?<br />
No, lo scelga lei.<br />
Va bene, lo lascerò alla tua insegnate di lettere.<br />
Grazie, signora, ora vado dalla nonna che mi aspetta là - e indicò il posto in fondo, dove era seduta Caterina. <br />
Ti accompagno, così conoscerò tua nonna, disse Lena alzandosi e porgendole la mano. <br />
Non erano ancora arrivate che Caterina balzò in piedi e si avvicinò: tu, lei, contessina Lena! Quanto tempo che non ci vediamo!<br />
Che bella sorpresa, Caterina, non sapevo avessi questa meravigliosa nipotina. Tutto bene? Bianca mi ha detto che non ha i genitori…<br />
Tutto bene, sì, grazie a Dio. Bianca non è mia nipote di sangue, ma è come se lo fosse… Era lei la neonata abbandonata che ho trovato sotto una quercia nel nostro paese sulla strada che porta a casa mia, ricorda?<br />
Oddio! No, non ricordo, mai saputo niente, quando è stato?<br />
Oggi sono esattamente undici anni.<br />
Ah, il medesimo giorno in cui ho partorito la bambina che ho perduto dopo poche ore!
Lo so, me l’ha detto mia figlia alcuni giorni dopo e mi è dispiaciuto tanto, ho pensato a come va storto il mondo…<br />
L’avrà saputo tutto il paese e a me non è giunto niente…<br />
Stavi male, mi hanno detto.<br />
Sì, molto e dopo ci siamo trasferiti qui.<br />
Lena parlava come trasognata, nella sua testa turbinavano pensieri confusi, le balenava una speranza e contemporaneamente temeva fosse un’illusione per casuali coincidenze. Doveva sapere, altrimenti sarebbe impazzita.<br />
Mi farebbe piacere parlare con te, posso venire a trovarti nel pomeriggio?<br />
Quando vuoi, anche subito se mi vuoi fare l’onore di mangiare con noi: ho preparato i vinci sgrassi,<span style="font-size: xx-small;">3</span> oggi è il compleanno di Bianca!<br />
Grazie, volentieri, entro qui nella pasticceria a telefonare a casa.<br />
Entrò, telefonò, disse alla domestica di avvisare i familiari che lei si fermava a pranzo fuori perché non poteva rifiutare l’invito di un’insegnante di sua figlia incontrata alla rappresentazione. Poi comprò una torta e all’uscita la porse a Bianca che ringraziò con un sorriso grandioso che le faceva brillare il blu azzurrato degli occhi. Bianca ricordò lo sguardo amoroso di Cecco e avvertì un nodo alla gola.<br />
Sai, ti ricordo bambina, le disse Caterina, quando venivi alla cascina con tuo padre a comprare le tomelle di capra… e perdona se mi scappa il tu, è la brutta abitudine di noi marchigiani…<br />
A me fa piacere e credo sia giusto dare del tu a tutti, ci rivolgiamo così pure a Dio, no?<br />
Caterina sorrise e le posò una mano sul braccio: mi sembri turbata…<br />
Sì, se potremo rimanere sole per un po’, ti spiegherò perché.<br />
Bianca saltellava in avanti e Caterina disse che dopo mangiato le avrebbe suggerito di andare a giocare con i bambini della vicina e a suo marito di fare una passeggiata.<br />
<br />
Lena le raccontò dell’amore tra lei e Cecco, del tragico incidente in cui il giovane trovò la morte e del proprio matrimonio con il figlio del conte per dare un padre alla creatura che aspettava. Le descrisse quanto avvenuto il giorno del parto e il turbamento provato alla vista di Bianca per la sua impressionante somiglianza con Cecco e i suoi capelli identici ai propri: è stato come mi apparisse, cresciuta, la bambina che ho perduto! E subito dopo, tu mi hai detto di aver trovato Bianca, neonata, sotto una quercia proprio il medesimo giorno del mio parto! Immediatamente ho dubitato, no, ho avuto la certezza che mio marito ha fatto sparire la bambina dandola per morta!<br />
Che dici figlia mia! – esclamò Caterina – pensi possa essere tanto cattivo il contino Nicolò?<br />
Non lo so, mi aveva chiesto in sposa prima, ma io gli avevo detto di essere innamorata di un altro e ovviamente era rimasto male. Poi, per un accordo tra suo padre e il mio, lui accettò di passare per responsabile della mia gravidanza e ci sposammo. Anche se non lo amavo, gli volevo bene da quando eravamo bambini e desideravo che la mia creatura avesse un padre. In tutti questi anni non ho avuto motivo di lamentarmi del suo comportamento, e quando lui ha saputo di essere sterile ha assecondato la mia decisione di adottare una bambina, ma tutte le coincidenze che ho scoperto oggi mi hanno sconvolto e devo sapere se si tratta soltanto causalità, altrimenti impazzirò!<br />
E come potrai sapere, anche se fosse come pensi, credi che lui te lo confermerà?<br />
Gli chiederò una prova che è morta, poi ti dirò qual è, ora devo scappare a casa, la bambina sarà stranita che non sia ancora arrivata.<br />
Torna presto, per favore, non lasciarmi con quest’assillo! Annota il numero del telefono, l’abbiamo messo per Bianca, così mi chiami e prendiamo appuntamento per vederci.<br />
Lena, appena arrivata a casa, disse di avere un gran mal di testa, abbracciò la figlia e andò a letto. Non si levò neanche per cenare, pregò la domestica di portarle una camomilla e qualche ciambella per non prendere un’aspirina a stomaco vuoto e rifiutò la proposta del marito di chiamare il medico, disse che forse aveva preso freddo nel chiostro del convento, domani sarebbe stata bene.<br />
Trascorse la notte insonne, raggomitolata su se stessa, aspettando l’alba, che sembrava non arrivare mai, con i nervi tesi come corde di violino; al primo bagliore saltò dal letto e, trattenendo l’impazienza a denti stretti, si occupò di preparare la colazione. Poi, come tutte le mattine, svegliò la bambina l’accompagnò a scuola e tornò a casa. Le era subentrata una calma glaciale e al marito che, sul punto di uscire, le chiese come stava, disse ora bene, grazie, ma ti devo parlare.<br />
Non posiamo rimandare a più tardi? Mi aspettano al maneggio.<br />
No, ora. Vieni di là – e si avviò al salotto. <br />
Lui la seguì incuriosito ma non preoccupato, ipotizzò che, a pranzo, l’insegnante le avesse parlato di qualche problema riguardante la bambina. <br />
Sedettero di fronte e, poiché lei taceva guardandolo in modo strano, le chiese: ti è piaciuta ieri la rappresentazione? <br />
Sì, bella e sorprendente… Un avvenimento mi ha riportato a undici anni fa, alla perdita della mia bambina…<br />
Che avvenimento?<br />
Poi ti dirò, ma ho pensato che non sono mai andata a portare un fiore su quella tomba!<br />
Perché pensi queste cose tristi! Nella cappella di famiglia i fiori non mancano mai, ci pensa il custode del cimitero, per incarico di mio padre… I morti bisogna lasciarli riposare in pace!<br />
Già, ma devono aver pace pure i vivi, ed io non l’avrò finché non sarà aperto il loculo di tua nonna e non vedrò i resti della mia creatura.<br />
Che ti prende? Ti dà di volta il cervello?<br />
È sano, il mio cervello, è malato il tuo, che sei stato capace di un’azione autenticamente delinquenziale!<br />
Che dici, che azione? Gridò Nicolò alzandosi in piedi e fissandola con uno sguardo atterrito.<br />
Siediti, ascolta quanto oggi ho saputo e da cui ho dedotto quello che hai fatto. <br />
Egli si accasciò in poltrona e lei, dopo aver riferito l’evento del giorno precedente, disse: sei stato tu a gettarla perché morisse di freddo e di fame, dopo aver mandato a dormire tua madre! E poi hai messo in atto tutta la sceneggiata: la difficoltà respiratoria, l’incubatrice, la sepoltura… se non farai aprire quella tomba davanti a me, mi rivolgerò ai carabinieri e l’apriranno loro.<br />
Nicolò singhiozzava, ma dovette parlare, lei non gli concedeva tregua.<br />
Non potevo sopportare il pensiero che tua figlia ti ricordasse l’uomo che avevi amato… che lo ricordasse anche a me. Non volevo che morisse, però, se no l’avrei gettata nel fiume. L’ho coperta bene, l’ho adagiata nel cestello della bicicletta e mi sono messo fermo all’inizio della discesa aspettando che qualcuno, proveniente dal sentiero del bosco dove in tanti vanno a cercare la legna, comparisse sulla strada. È comparsa Caterina la Caprara, ed io le sono passato davanti di corsa, ho lasciato la bambina più in là, sotto la quercia in margine alla strada, l’ho scossa per farla piangere, ho messo la bicicletta sulle spalle, sono salito sulla scarpata a lato monte e mi sono nascosto dietro un albero. Ho visto che lei l’ha raccolta e sono tornato indietro.<br />
E se non l’avesse raccolta?<br />
L’avrebbe fatto qualche altro.<br />
Oppure sarebbe morta, no?<br />
No, l’avrei riportata a casa.<br />
Che malfattore e bugiardo sei! Non ti perdonerò mai il male che hai fatto a me e a quella creatura! <br />
So che non merito il tuo perdono, ma ti prego, offriamo un buon compenso a Caterina, adottiamo la bambina e vedrai che mi comporterò bene.<br />
E tu credi che io mi permetterò di fare una proposta simile a una donna che l’ha salvata e cresciuta con amore come fosse figlia sua? E allontanerei la bambina dalle persone cui è affezionata? Ho già pensato a una soluzione che non faccia male a nessuno, però tu te ne vai al palazzo o dove ti pare, senza farti vedere più da me. Ti garantirò un reddito e ci separeremo consensualmente. La bambina che abbiamo adottato rimane con me e le diremo che non andavamo più d’accordo, la stessa versione la daremo agli amici, invece i tuoi genitori e mio padre dovranno sapere la verità, non voglio che pensino a un mio colpo di testa! <br />
No, Lena ti prego, non mi punire così!<br />
Se non così, come? Per via legale, svergognandoti pubblicamente? Ti salvo per rispetto dei tuoi genitori, affinché non si debbano vergognare per quello che hai fatto! Anzi, è meglio che vai a raccontargli tutto tu stesso e te ne rimani lì, non ti voglio trovare qui, né questa sera né mai.<br />
Lasciandolo avvilito e piangente, Lena telefonò a Caterina, le diede la conferma di avere avuto la confessione del marito e presero appuntamento per il pomeriggio. <br />
Caterina avrebbe provveduto perché fossero sole. Recandosi da lei, Lena passò da una libreria e comprò per Bianca le fiabe di Andersen. <br />
Caterina l’ascoltò sbalordita e commossa e alla fine, facendole una carezza, disse: <br />
mi susciti pena, povera figlia! E non voglio togliere la madre a Bianca né la possibilità di avere un avvenire che noi non possiamo darle, però senza di lei morirei! E anche la bambina ne soffrirebbe… cerchiamo di fare così: io le racconto tutto, è una ragazzina intelligente, conosce la sua vicenda e, se è d’accordo, sta un po’ con te e un po’ con me. Va bene, così?<br />
Sei una persona straordinaria, Caterina, ma esiste una soluzione migliore, buona per tutti: nella mia villa c’è un appartamento libero con un muro in comune con la mia abitazione…ti trasferisci lì con Bianca e tuo marito, apriremo una porta di comunicazione e staremo insieme come un’unica famiglia. Così Bianca vivrà con te, con me e con la sorellina. <br />
Sì, però pagherò la pigione.<br />
Non essere superba, Caterina, sono sempre io in debito con te per aver salvato mia figlia e averla accudita per undici anni! Permetti che ti consideri come una mamma, e faccia parte della mia famiglia anche tuo marito che ha condiviso la tua generosità verso la bambina. E pensa quanto sarà prezioso l’aiuto che mi darai per far crescere bene le due ragazzine.<br />
Sopraffatte dall’emozione, le due donne si abbracciarono, quindi decisero fosse opportuno che Lena andasse via prima del ritorno di Bianca, cui era meglio le raccontasse tutto la nonna.<br />
Lena tornò a casa, Nicolò non c’era e le aveva lasciato una lettera in cui insisteva a chiederle perdono e le comunicava che sarebbe andato a chiederlo anche ai suoi genitori. Lena si sentì sollevata che se ne fosse andato e di essere liberata dal penoso compito di informare personalmente i suoceri, e volse il pensiero a Bianca, al miracolo che gliel’aveva restituito. <br />
Intanto, Caterina si disponeva a informare Bianca dell’evento, non si preoccupava per come farlo: era stata capace di rivelare a quella creatura non solo di essere priva di genitori, anche di essere stata da loro abbandonata; e ricordava che una volta, mentre seguivano le capre al pascolo, lei le aveva detto: mi dispiace di essere figlia di persone cattive e sono contenta di non conoscerle! Ecco, ora che il mistero era svelato, Bianca avrebbe conosciuto la madre e saputo, contemporaneamente, quanto aveva sofferto e dell’innocenza del padre morto prima che lei nascesse.<br />
Rincasata la bambina, le consegnò il libro delle fiabe di Andersen e lei: oh, la signora Lena è venuta qua ed io non c’ero! <br />
Non fa niente, ha detto che tornerà a trovarti domani pomeriggio.<br />
Bianca prese il libro, sedette al camino e, prima di cominciare a sfogliarlo, si rivolse a Caterina:<br />
Come sono contenta che torni! Hai visto quant’è bella? E che ha i capelli come i miei?<br />
Sì, e per questo ti vuole bene e perché somigli a un ragazzo che lei amava ed è morto prima che nascesse la loro creatura. <br />
E com’è morto? <br />
Investito da una macchina…<br />
E lei ha sofferto, vero?<br />
Certo, poi ha sposato il figlio del conte di qui, anche se non lo amava.<br />
E perché, allora?<br />
Perché aspettava una creatura concepita con quel ragazzo e desiderava che avesse un padre, ma poi è finita male! <br />
Male come?<br />
È nata una bambina ma il marito di Lena per gelosia l’ha presa di nascosto a tutti e l’ha abbandonata in margine a una strada, poi ha detto di averla portata in ospedale perché non respirava bene e lì era morta. <br />
Mi dispiace tanto, povera signora! E poi ha avuto altri figli?<br />
No, ha adottato una piccola orfana, ma le è rimasto nel cuore il dolore per aver perduto la propria bambina… <br />
Bianca la guardava con un visetto triste e a Caterina parve, o così desiderava, che lei la interrogasse con lo sguardo e fece un altro passaggio: sai che tutto questo è avvenuto lo stesso giorno in cui ti ho trovato sotto la quercia?<br />
Bianca le puntò gli occhi negli occhi, le labbra semiaperte come per respirare meglio, però muta. Caterina, che si era seduta di fronte a lei, la prese in braccio e le disse: quando ti ho raccontato che eri stata abbandonata sotto quella quercia, ti è sembrato che fosse una brutta favola, ricordi? La bambina fece segno di sì e la donna continuò: ora ti racconto come tua madre ti ha ritrovato, e non è solo una favola bella, è semplice realtà.<br />
Bianca balzò a terra e, inchiodata davanti a lei, le strinse forte le braccia: che mi stai dicendo, nonna, che quella signora è la mia mamma?<br />
È così, mia piccola, ora ti racconto come e perché l’ha capito e com’è riuscita a ricostruire tutta la vicenda. La riprese in braccio, Bianca si strinse a lei e tremando ascoltò.
<br />
<br />
A letto con Caterina e abbracciata a lei, pianse per quasi per tutta la notte e come non potesse dire una parola, rispondeva soltanto a segni: sei triste? Segno di diniego. Sei felice? Segno affermativo. Allora perché piangi? Alzata di spalle. Finalmente, fatto giorno, si addormentò.<br />
Si svegliò che erano le dieci passate: ho perduto la scuola!<br />
Non importa, per un giorno; fai colazione, è pronta.<br />
Bianca sedette al tavolo, guardò la nonna e disse: piangevo perché mi piacerebbe vivere con la mia mamma, ma non voglio lasciare te. <br />
Non ti preoccupare, starai con tutte e due, lei ti spiegherà come.<br />
A che ora viene?<br />
Ha detto nel primo pomeriggio. <br />
Sai come si chiamava mio padre? <br />
Si chiamava Cecco, tua madre ti mostrerà una sua foto da bambino in cui si vede che suo visetto è identico al tuo.<br />
Bianca si alzò e cominciò a sparecchiare saltellando. Lavò le suppellettili e poi chiese: mi faccio un bagno?<br />
Come vuoi, ma l’hai fatto avantieri, non puoi essere sporca!<br />
Sì, però, dopo il bagno una è profumata!<br />
Va bene, preparo l’acqua calda per la tinozza.<br />
Fece il bagno e indossò la gonnellina bianca e il maglione colore azzurro-blu come i suoi occhi regalatole dalla nonna alcuni giorni prima del suo compleanno.<br />
Dopo pranzo cominciò a girare per la stanza sostando continuamente davanti alla finestra. Finalmente vide Lena scendere dall’auto, corse alla soglia e lì si fermò, le gambe tremanti e lo sguardo offuscato dalle lacrime. Lena, in preda a intensa commozione, la strinse tra le braccia e non finiva di baciarla mentre le loro lacrime si confondevano. Intervenne Caterina, fece sedere Lena che adagiò la ragazzina sulle gambe, le asciugò il visetto e continuò a carezzarla.<br />
La nonna ti ha raccontato tutto, vero?<br />
Sì.<br />
E sei contenta?<br />
Certo, mi pare un sogno meraviglioso! Mi ha detto che mi avresti spiegato come starò con te e con lei…<br />
Lena le descrisse i due appartamenti confinanti assicurandole che vi si sarebbero trasferiti molto presto, il tempo di aprire la porta di comunicazione. Promettendole che l’avrebbe portata e vederli il giorno dopo, andò via. Le restava il compito di informare suo padre, ormai sposato con la donna che amava, e si diresse al negozio. Le dissero che era salito un momento a casa e lo raggiunse. Luciano non si meravigliò, era assuefatto a improvvise visite della figlia, ma notò il suo volto affaticato e si preoccupò. <br />
Sto benissimo, papà, e sono felicissima. Sono venuta per raccontarti una cosa strabiliante!<br />
Ehi! Che è successo?<br />
Seguendo il racconto della figlia, Luciano sbalordiva sempre più e alla fine le chiese perdono per averla indotta a sposare quel mascalzone - non avrebbe mai potuto immaginare che fosse capace di un simile misfatto! – e condivise le sue decisioni. Gli dispiaceva per il suo amico e la moglie, poveri sventurati, disse, a scoprire che il loro figlio era un delinquente. <br />
La sera del giorno dopo, a casa di Luciano arrivò il conte a implorarlo di intercedere presso la figlia perché perdonasse quello scervellato di Nicolò che aveva agito, a suo parere, in preda a un raptus di gelosia. Luciano gli rispose che pur addolorato per lui, non avrebbe mosso un dito a favore di chi aveva fatto tanto male alla propria figlia e alla sua creatura e, rammaricandosi di essere stato l’artefice principale di quel matrimonio, comunicò al conte l’intenzione di Lena di non rendere pubblico il misfatto e cedere a Nicolò uno dei fondi avuti in dote, compreso l’allevamento dei cavalli, precisando di esserne consenziente solo per la loro antica amicizia.<br />
Il conte si rese conto dell’inutilità dell’insistenza, dichiarò di riconoscere le ragioni dell’amico e di Lena e ringraziò per la loro promessa di mantenere il segreto al fine di evitargli la vergogna che altrimenti avrebbe patito.<br />
<br />
La contessa si affannò a spiegare alle sue amiche che la separazione tra Nicolò e Lena era avvenuta per incompatibilità di carattere, senza risparmiarsi qualche frecciatina sulla pretesa della nuora di averla vinta su tutto: avendo conosciuto Bianca e saputo la sua storia da Caterina, si era messa in testa di adottare anche lei e poiché Nicolò si opponeva per l’origine sconosciuta della ragazzina, aveva deciso di lasciarlo pur di fare come voleva lei. <br />
Pensava di chiudere così le bocche che si passavano informazioni associazioni e ipotesi, senza però venire a capo di niente: talmente incredibili gli eventi che nessuno arrivò a immaginarli.
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<br />
<i>Roma, marzo 2011</i><br />
<i>Sara Zanghì
</i><br />
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<br />
Nota dell’autrice
<br />
Non so se la storia di Bianca sia vera, come sostenuto da chi me l’ha raccontata una notte di luglio dell’anno scorso nella cucina di un albergo in un paese situato alle alte pendici dei monti Sibillini; perciò nel timore che si tratti di fatti realmente accaduti, non cito il luogo e attribuisco nomi inventati ad alcuni personaggi che sarebbero ancora viventi. <br />
Ero in vacanza ospite di quell’albergo, e una sera intorno alla mezzanotte mi venne sete e andai nella hall per chiedere una bottiglia d’acqua, ma il portiere dormiva beato sulla sedia sdraio e, intravedendo provenire luce dalla cucina, vi entrai. C’era la cuoca, una simpatica donna robusta, braccia muscolose e mani grandissime, che assottigliava velocemente col matterello la pasta per i tagliolini. Si disse contenta della mia comparsa perché lavorare di notte, sola, era proprio pesante. Insonne com’ero, mi fermai volentieri ad ascoltare la descrizione della sua ricetta per la preparazione della squisita crema fritta. Mi svelò che il segreto consisteva nell’usare il latte di capra, come le aveva insegnato sua nonna Caterina morta novant’enne da qualche mese e aggiunse che era una donna fuori dal comune, capace di cose straordinarie, tanto che aveva tenuto con sé e cresciuto una neonata trovata abbandonata sotto una quercia nel paese limitrofo. E, notando il mio interesse, continuò fino all’epilogo della storia che coincise con l’apparizione dell’alba: prendemmo un caffè, lei andò in camera a riposare qualche ora, io vi avviai in auto al paese confinante per vedere il luogo da lei indicatomi, dove era stata abbandonata la bambina salvata da Caterina la Caprara.
<br />
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<span style="font-size: xx-small;">Note
</span><br />
<span style="font-size: xx-small;">1 Soprannome per il possesso di un piccolo gregge di capre.<br />
2 È situato sul monte Vettore nel massiccio dei Sibillini e deriva il nome dalla leggenda secondo la quale il corpo di Ponzio Pilato, condannato a morte da Tiberio, fu chiuso in un sacco, messo su un carro di bufali lasciati senza guida e finì nel lago da una cresta di monte. Nell'antichità fu chiamato anche Lago della Sibilla e dalla tradizione popolare è ritenuto un luogo magico.<br />
3 Timballo di lasagne con sugo e carne di papera e formaggi.
</span>laura-cihttp://www.blogger.com/profile/12587159250603555673noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7544197850826823125.post-64481671757207556682012-11-24T06:13:00.001-08:002012-11-24T06:13:46.764-08:00La narratriceNegli anni sessanta del secolo scorso, tra le piccole raccoglitrici di caffè dell’alta Valle del Cibao c’era Olivia, bambina appartenente a una delle tante famiglie povere di un villaggio situato in quel fertile territorio dell’isola di Santo Domingo delimitato a est e a nord dall’oceano Atlantico ed esteso tra le Cordigliere settentrionale e centrale su cui s’innalza, oltre i 3000 m., l’imponente Pico Duarte. L’abbondanza dei corsi d’acqua per i fiumi che attraversano il territorio e il clima dell’altitudine compresa tra gli 800 e i 1200 metri, temperato dalla brezza marina proveniente da oriente, sono propizi alle varietà dell’agricoltura ricca di ortaggi vari, di piantagioni di tabacco, banani, noci di cocco, ananas e soprattutto di caffè. Un caffè Arabica, da coltura biologica, che si distingue per un’alta qualità aromatica leggermente fruttata, i cui chicchi sono raccolti e sgusciati a mano. Al contrario delle altre zone, dove le terre sono concentrate nelle mani di pochi possidenti che adottano dannose coltivazioni intensive di canna da zucchero e sfruttano i braccianti quasi in modo schiavistico, nel Cibao esiste la piccola proprietà. I possidenti però sono una minoranza rispetto ai nullatenenti che riescono a sopravvivere nonostante i salari bassi perché tutti, compresi gli anziani le donne e i bambini, lavorano nelle colture locali. <br />
<a name='more'></a><br /> <br> <br><br />A otto anni Olivia aveva perduto il padre e lavorava insieme alla madre per aiutarla a provvedere alla sussistenza della famiglia composta di altri due bambini gemelli e della nonna. Perciò in maggio e dicembre, mesi del raccolto del caffè, si assentava da scuola ma la sera, nonostante la stanchezza, trascorreva alcune ore studiando e leggendo dei libri che prendeva in prestito dalla piccola biblioteca scolastica. Quando tornava in classe, recuperava quanto aveva perduto nelle assenze con impegno tenace, sostenuto dalla sua vivace intelligenza e dall’innata passione per la lettura grazie alla quale aveva acquisito una padronanza della lingua spagnola rarissima in un ambiente contadino nel quale dominava il dialetto. Il pomeriggio aiutava nei compiti i suoi fratelli e il loro compagno di scuola, Vicente, sesto e viziato figliolo di doña Rachele, proprietaria della piantagione di caffè in cui Olivia lavorava durante il raccolto. E, grazie al suo aiuto, Il ragazzino, che solitamente era svogliato, non solo migliorò alquanto il profitto scolastico, ma si appassionò alle storie che lei leggeva a lui e ai fratelli, traducendo nel dialetto le parole e i passi che loro non capivano. Doña Rachele, soddisfatta e grata, pensò di ricompensarla con un’iniziativa vantaggiosa anche per sé, e invitò lei e i fratelli a pranzare ogni giorno a casa propria in modo che nel pomeriggio studiassero insieme al suo figliolo e leggessero i libri consigliati dalla maestra. <br><br />Una felicità, per i ragazzini poveri, usufruire di cibo buono e del calore del camino specie in gennaio e febbraio quando a quell’altitudine la temperatura scende anche sotto zero. A casa loro bisognava risparmiare la legna che nel bosco scarseggiava perché andavano a raccattarla tutti quelli che non potevano comprarla. <br />Seguendo scrupolosamente i consigli della maestra, la mamma di Vicente lasciava ai ragazzini il tempo di giocare, ma loro si divertivano anche a fantasticare viaggi sugli itinerari che incontravano nelle letture. <br />Un giorno, a casa di doña Rachele arrivò il commesso di una libreria portando i volumi da lei prenotati. I ragazzini si precipitarono ad aprire il pacco e videro che c’era anche la storia della conquista spagnola del loro Paese scritta da fra’ Bartolomeo de Las Casas che nel 1492 aveva partecipato alla spedizione di Colombo in cerca delle Indie arrivando invece in quell’isola sconosciuta. Olivia l’aveva già studiata a scuola e aveva letto anche quel libro, mentre i ragazzini l’avrebbero studiata l’anno successivo, perciò disse loro di aspettare che gliela spiegasse la maestra. <br><br />Vicente, ormai diventato impaziente nell’attesa di conoscere una storia, pregò Olivia che la raccontasse, almeno in sintesi. <br><br />Lei, come sempre perché le piaceva narrare, accettò e, dopo aver spiegato i motivi della spedizione, disse che Cristoforo Colombo, in obbedienza alla regina Isabella la cattolica che aveva promesso al papa un’opera di conversione degli infedeli, invitò a far parte dell’equipaggio di circa novanta uomini quel frate domenicano che accettò volentieri, noncurante della lunga e avventurosa navigazione per l’immenso oceano Atlantico, ancora mai attraversato da alcuno. Anzi, da giovane fantasioso, era felice di trovarsi nello spazio sconfinato tra le acque e il cielo, di vedere tante creature marine attorno alle tre caravelle, e intanto pensava alle meravigliose terre di cui si favoleggiava e si esaltava al pensiero della missione alla quale si sarebbe dedicato. Certo non immaginava le atrocità di cui sarebbe stato testimone – chiosò Olivia. <br><br />Che atrocità? - chiese Vicente, inquieto. <br><br />Se non hai pazienza, mi fermo - gli rispose lei. <br><br />Scusa, continua, per favore. <br><br />E lei: dopo circa due mesi di viaggio, ai naviganti apparve una terra verdissima sotto un limpido cielo solcato da miriadi di volatili colorati, circondata da fitte e alte foreste. Il monaco innalzò un canto di ringraziamento a Dio seguito dai suoi compagni che continuarono a esultare con grida di gioia. <br><br />Sbarcarono la mattina del 12 ottobre 1492 su una spiaggia bianchissima, delimitata da una selva di alberi alti, alcuni con frutti strani, a loro sconosciuti, e altri con fiori altrettanto misteriosi. <br><br />Appena gli spagnoli toccarono il suolo, videro sbucare dalla foresta un gruppo di persone e fermarsi a osservarli con meraviglia e quasi con timore. Erano tutti nudi, adulti e bambini, gli uomini soltanto con pezzi di pelle sui genitali e alcune donne indossavano una gonnellina fatta con paglia, cotone o foglie, le altre niente. I loro corpi erano armoniosi e dipinti di vari colori: nero, bianco, rosso o giallo, decorati con tatuaggi e adornati da vari monili d’oro e d’argento. Gli arrivati seppero dopo che si dipingevano così per tenere lontani gli spiriti del male. <br><br />Rassicurati dal loro atteggiamento pacifico, gli spagnoli cominciarono a regalargli oggettini di nessun valore: vetri colorati, specchietti che suscitavano un’allegra meraviglia in coloro che si vedevano riflessi e, indicando il cielo, cartoncini disegnati con immagini di Gesù, della Madonna e di vari santi. Quelli, guardandoli e notando la somiglianza tra le immagini e i donatori, con gesti ed esclamazioni di meraviglia fecero intendere di ritenerli una sorta di deità venuti dal cielo e cominciarono a ricambiare i regali con i monili preziosi che avevano addosso. Alcuni tornarono nella foresta riapparendo poi con ceste di paglia piene di banane noci di cocco ananas e arachidi, frutti sconosciuti per gli spagnoli, e glieli porsero insegnandogli con l’esempio che cosa fare per poterli mangiare. Nelle ceste c’erano anche forme di una specie di pane fatto con la manioca essiccata al sole, filetti di pesce anch’essi essiccati, e ciotole di scorza di cocco, di ceramica o terracotta piene di una bevanda alcolica ottenuta con la fermentazione della manioca stessa. E poi grandi foglie di un’erba secca arrotolata da fumare, un’altra novità per gli spagnoli che non conoscevano il tabacco ed erano sbigottiti notando che quei selvaggi, come loro li definivano, vivevano in un paradiso terrestre, avevano a disposizione beni di sopravvivenza e altri di piacevole passatempo, e sapevano fare tante cose. <br>Cominciarono subito l’esplorazione dell’isola, dividendosi in gruppi per direzioni diverse e portando con loro alcuni aborigeni, contenti di fargli da guida. <br><br />Il frate si unì a un gruppo guidato da un uomo che, con una mimica alquanto comunicava, significò di essere il capo di una tribù (cacicco, nella sua lingua) e, indicando sé e gli altri sempre con gesti mimici, disse il nome della popolazione dell’isola: Taino. Cercò di far intendere che quel termine significava buono, nobile, ma forse i conquistatori non capirono. <br><br />Come prima tappa li condusse in una vasta radura nella vicina foresta, dove sorgeva un villaggio di capanne costruite con legname, canne e coperte da foglie di palma. Lo spazio interno era vasto e comprendeva il focolare, una zona con amache di cotone sospese tra una parete all’altra, varie mensole di legno con suppellettili di ceramica, terracotta e di legno e, su una delle mensole, due piccoli idoli di cotone che il cacicco denominò Zemis. Fece intendere che uno rappresentava il Grande Spirito e l’altro la Sacra Madre Terra, creatori degli esseri viventi e di tutte le cose. E indicò il cielo per significare che era la loro sede. Con un largo cenno del braccio palesò che il Grande Spirito era presente in tutte le creazioni e pertanto ogni realtà naturale era animata, e i Taino comunicavano con il creatore attraverso l'interazione con la foresta, gli animali, l’aria e l’acqua, e perciò loro veneravano i progenitori divini con preghiere e rituali che servivano anche a tenere lontano Juracán, lo spirito del male. <br><br />Poi li accompagnò in giro per la foresta, dicendo i nomi dei frutti che indicava con espressione soddisfatta e felice, significandogli che potevano prenderne. <br><br />Nei giorni successivi, Il frate continuò a star vicino al cacicco cercando di fargli capire che la divinità è la stessa per tutti i popoli, solo che ognuno le attribuisce forme e nomi diversi, e pertanto potevano considerarsi fratelli. Cominciò quindi ad assistere ai riti religiosi dei Taino invitandoli a partecipare alla sua celebrazione della messa, cosa che molti facevano convinti di non offendere la propria religione e cominciarono a farsi il segno della croce, pensando che fosse un gesto per tenere lontano lo spirito del male, ma gli spagnoli lo vollero interpretare come prova di conversione.<br /> <br> <br><br /> L’atteggiamento amichevole e la liberalità dimostrata dai nativi confermarono negli Spagnoli l’impressione di essere considerati deità benevole, e raccolsero i materiali di una delle tre caravelle, gravemente danneggiata per un urto con gli scogli durante le manovre di sbarco, e li usarono nella costruzione di un fortino come loro provvisoria sede. <br><br />Intanto, esplorando il territorio in lungo e in largo, notarono che la popolazione non era numerosa, che era divisa in tribù, ognuna governata da un cacicco e che questi dipendevano da un capo supremo, depositario, insieme a alcuni personaggi, sorta di sacerdoti, della volontà divina. Scoprirono l’esistenza di sciamani, molto rispettati perché durante i riti religiosi, celebrati con danze accompagnate da tamburi e altri strumenti, comunicavano con la divinità inalando una polvere estratta dai frutti dell'albero di cohoba. <br><br />Videro rigogliosi campi di manioca, patate, mais, peperoncini, ananas, arachidi, cotone, riso e tabacco, campi che i Taino coltivavano con mezzi rudimentali e senza molta fatica perché il terreno era umifero e alquanto morbido. Né lavoravano molto, solo quanto bastava alla loro sopravvivenza, potendo usufruire anche dei frutti dei grandi alberi e di quanto di spontaneo cresceva sul terreno, tra cui delle canne nelle cui pareti interne solidificavano cristalli dolci ed energetici. Cacciavano poco perché pensavano che gli animali fossero animati e sacri, e pescavamo quanto bastava servendosi sia di ami sia di reti di cotone. <br><br />Grande la felicità degli invasori quando, oltre ai giacimenti d’argento, bauxite, nichel, ferro e salgemma, scoprirono quello che cercavano: l’oro. Miniere alluvionali d’oro, di cui i Taino ignoravano il valore venale ma, avendo inventato il modo di lavorarlo, ne raccoglievano quanto bastava per farne begli oggetti esornativi. <br /> Viste le miniere aurifere e le altre, Colombo, esultante, lasciò quaranta uomini nella base del fortino e tornò con l’altra parte dell’equipaggio in Spagna per portare la lieta notizia alla regina e avere altre imbarcazioni e mezzi per l’estrazione dell’oro e degli altri minerali dell’isola. A prova della ricchezza trovata, recò con sé vari monili d’oro avuti in regalo, campioni raccolti nelle miniere alluvionali e alcune persone come esemplari della popolazione del luogo. <br><br /> Intanto gli invasori e gli aborigeni imparavano la lingua gli uni dagli altri, ma la comunicazione non aiutò i rapporti presto guastati dal comportamento degli Spagnoli che si diedero a razziare i villaggi, impossessandosi degli oggetti trovati nelle capanne e facendo violenza alle donne. <br><br />Allora i Taino capirono che quelle persone non potevano essere deità venute dal cielo e il capo dei cacicchi organizzò la rivolta dando la caccia con attacchi a sorpresa alle bande dei razziatori che furono fatti fuori uno per uno eccetto il frate che invano si era adoperato per impedire ai suoi connazionali di commettere quei delitti. <br><br />Quando Colombo tornò dalla Spagna con altri 1500 uomini, saputo com’erano spariti i connazionali lasciati sul posto, in poco tempo, data la superiorità delle armi, fece uccidere il cacicco e tutti quelli che tentavano di difendersi. In poco tempo gli invasori s’impadronirono delle terre e costrinsero tutti al lavoro schiavizzato: le donne e i bambini nei campi e come loro servitori, gli uomini nelle miniere e nelle coltivazioni di canna da zucchero - che presto furono impiantate in tutte le zone pianeggianti allargate con il taglio degli alberi. E vi si stabilirono da padroni assoluti costruendo villaggi di case di pietra e legno con il lavoro della popolazione locale. <br><br />Non abituati alla fatica del lavoro loro imposto, i nativi si ammalavano e cominciarono a morire come mosche anche per le malattie di cui erano portatori gli Spagnoli e per le quali loro non avevano anticorpi; molti si toglievano la vita per depressione, soprattutto le donne vittime delle violenze degli invasori. In meno di due decenni, di circa 400.000 individui, ne rimasero, secondo la stima del frate, meno di 60.000 e continuarono a ridursi fino a sparire. <br><br />Quando la popolazione locale cominciò a venir meno, gli Spagnoli deportarono schiavi neri dall’Africa, uomini e donne in modo che fosse assicurato gratis il ricambio, e li adoperarono nelle miniere e nelle ormai vaste coltivazioni di canna da zucchero che per gli invasori divennero la principale fonte di reddito dopo l’esaurimento delle miniere d’oro del quale, in circa un ventennio, furono estratti e importati in Spagna più di diecimila tonnellate. <br><br />In seguito alla tratta degli schiavi – disse Olivia – l’isola si ripopolò con nuove generazioni di neri, diretti discendenti dagli africani, di meticci come me e voi che proveniamo dall’unione tra spagnoli e africane e ormai costituiamo la maggior parte degli abitanti del territorio, ma quasi nessuno è rimasto con i bei tratti somatici degli indios Taino. <br><br />Qui Olivia terminò il racconto. Era scesa la sera, limpida e stellata, e i tre ragazzini avevano le lacrime agli occhi. Allora, indicando nel riquadro della finestra il Pico Duarte la ragazza gli disse: guardate, sembra toccare le stelle, una leggenda vuole che lo spirito taino sopravviva su quell’altura. <br><br />Chi ha l’animo nobile è vicino alle stelle, vero? Chiese Vicente. <br><br />Noi, però, osservò uno dei gemelli, non siamo discendenti Taino! <br><br />Siamo nati nella loro terra e dobbiamo ricordarli cercando di essere come loro, non come quelli che li hanno sterminati – rispose Olivia – e non è difficile, basta non essere degli egoisti e avere solidarietà verso gli altri.<br />I ragazzini la abbracciarono.<br /> <br> <br><br />Crescevano insieme, contenti, volendosi bene, cercando di comportarsi secondo i suggerimenti di Olivia che continuò ad aiutare Vicente fino al termine degli otto anni di scuola primaria, ma dopo la madre lo mandò in un collegio di Santiago per continuare gli studi e la ragazza andò a lavorare nei campi dalla mattina alla sera, mentre i suoi fratelli trovarono occupazione uno nell’officina meccanica del villaggio e l’altro come raccoglitore di frutti tropicali. <br><br />Più il tempo passava, più Olivia soffriva la mancanza della scuola e dell’impegno pomeridiano che lei aveva compiuto con responsabilità e gioiosamente, si sentiva estranea alla mentalità delle compagne di lavoro, ai loro discorsi, ma evitava di isolarsi per non essere considerata strana, come accadeva se durante qualche pausa stesse in un angolo a leggere. <br><br />Sapeva che tante persone, specie di altre zone, vittime della crescente concentrazione della proprietà terriera, emigravano in cerca di un’occupazione nelle città costiere ormai diventate attrattive turistiche, e sperava si presentasse un’occasione simile anche per lei, ma che fosse un lavoro pomeridiano in modo di poter frequentate di mattina una scuola superiore. Un giorno seppe che la proprietaria della locanda del villaggio trovava occupazione in città a delle ragazze come domestiche o baby-sitter, e si presentò. <br><br />Sai fare i lavori di casa e badare ai bambini? Chiese la signora. <br><br /> Sì, però voglio continuare a studiare perciò dovrei trovare un’occupazione di pomeriggio. <br><br />Con questa limitazione è un po’ difficile, però… - e dopo una pausa durante la quale osservò attentamente la figura della ragazza – la donna disse: una mia collega che gestisce un hotel a Santo Domingo procura lavoro a ragazze e ragazzi come guide per i turisti. So che il lavoro non manca e si guadagna benino. Ne parlerò a lei. <br><br />Io però non conosco la città! Notò Olivia con avvilimento. <br><br />Non ti preoccupare, l’imparerai, intanto comincerai ad accompagnare i turisti nei negozi dove si recano loro, per fargli da interprete con i venditori per le cose che vogliono comprare e per le contrattazioni sul prezzo. Vedo che parli bene lo spagnolo e dato che hai frequentato le scuole, ti arrangerai un po’ con l’inglese, no?<br />Sì, l’inglese l’ho studiato! <br><br />Bene, allora torna lunedì e ti faccio sapere. <br><br />Olivia tornò e la signora, con un largo sorriso, le comunicò: tutto fatto, domenica prossima verrà la mia collega e partirai con lei. Ti darà una stanza nel suo albergo e il vitto. Lavorerai solo di pomeriggio e pagherai una percentuale sul tuo incasso giornaliero. <br><br />Olivia tornò a casa felice, ma appena le raccontò, la madre si mise le mani nei capelli: tu sei impazzita! Dove vuoi andare così alla ventura? Lo sai quello che può succedere a una ragazza? <br><br />Lo so ma a me non succederà, sono capace di badare a me stessa e voglio tentare di trovare il modo di continuare gli studi. Se la situazione non va bene, torno subito a casa. Ti prego di darmi fiducia. <br><br />E la mamma, col viso bagnato di lacrime: so che sei una ragazza intelligente, matura più dei tuoi quindici anni, e non voglio impedirti di tentare di costruirti un avvenire migliore, ma ti prego di tenere gli occhi bene aperti e di diffidare di tutti.<br /> <br> <br><br />La prima persona verso la quale Olivia sentì diffidenza, fu quella che venne a prenderla: una donna dallo sguardo acuto e freddo e dal sorriso infido, ma partì con lei, con l’animo di chi s’inoltra in una foresta senza conoscere il sentiero per uscirne, ma con la ferma convinzione di sapersi orientare con il sole e le stelle. E poiché non si era mai mossa dal proprio luogo e conosceva il Paese soltanto dai libri, abbandonò l’inquietudine e si mise a osservare attentamente il paesaggio che le scorreva agli occhi. Le sembrava di stare attraversando il paradiso terrestre e aveva attimi di felicità e di esaltazione che le infondevano speranza per la sua avventura. <br><br />La città, invece, già ai primi sguardi dal finestrino dell’auto, le parve un caos spaventoso, ma non si scorò: avrebbe visto le meravigliose spiagge bianchissime lambite dalle foreste, i famosi monumenti e le chiese, i grandi negozi… e mentre fantasticava, la signora fermò l’auto davanti a un hotel. Scesero, entrarono e quella la guidò in una stanza, le disse di riposare e di scendere in sala pranzo alle otto per la cena. <br><br />Olivia fece una doccia, felice di avere a disposizione un bagno tutto per sé, tirò fuori dalla borsa il migliore vestito che possedeva – gonna e giacca e una bella camicetta regalatale da doña Rachele – si affacciò alla finestra ma la vista dava su una via secondaria e vide solo pareti di altri edifici. Aveva voglia di uscire, ma era già quasi l’ora di cena e scese nella hall. C’erano persone sedute in poltrone, e notò che erano quasi tutti uomini bianchi, sicuramente americani ed europei. Subito si accorse di avere addosso i loro occhi e si avviò per tornare in camera, nel corridoio incrociò un gruppetto di ragazze mulatte all’incirca sue coetanee e qualcuna più piccola di lei, che le lanciarono uno sguardo e le sorrisero. <br><br />Alle otto in punto andò in sala da pranzo e sedette al tavolo indicatole da una cameriera. Vi stavano già altre due ragazze che la salutarono con un festante hola e lei pensò fossero del gruppo incontrato nel corridoio. Dando uno sguardo alla sala, notò che vari tavoli erano occupati da un uomo bianco e una ragazza di colore e a uno essi scorse un ragazzino mulatto, molto carino e dall’espressione triste, intento a osservare una macchinetta fotografica che teneva tra le mani, seguendo le spiegazioni sul funzionamento che gli dava un grassone dal sorriso ripugnante seduto accanto a lui. Allora, improvvisamente, come le arrivassero alle orecchie in quel momento, risentì le parole accorate della madre e si rivolse alle compagne di tavolo chiedendole se erano a Santo Domingo per turismo. <br><br />No, siamo qui per lavorare, rispose la più grande delle due. <br><br />Fate da guida ai turisti ? <br><br />Sì, certo, disse quella, e scambiò con la compagna uno sguardo come d’intesa; poi le chiese: e tu da dove vieni? Sei arrivata oggi? <br><br />Sì, vengo da un paese del Cibao per fare il vostro stesso lavoro. <br><br />L’altra, un’adolescente sui dodici anni, le chiese: lo sai in che consiste esattamente il nostro lavoro? <br><br />Accompagnare i turisti per la città e nei negozi, no? <br><br />Non solo questo. <br><br />E che altro? Chiese lei, turbata. <br><br />Intervenne la più grande: gli facciamo un po’ di compagnia, ma non ti preoccupare, vedrai che si guadagna bene. <br><br />Olivia si accorse che, nel dire così, la ragazza aveva sfiorato col gomito un braccio della compagna, ma non insistette, era chiaro che non avrebbero detto altro. Tentò inutilmente di mangiare qualcosa e dopo cominciò a girare per l’hotel in preda a un’agitazione crescente, cercando di scoprire se c’era qualche uscita secondaria. Aveva scartato l’idea di chiedere spiegazioni alla padrona dell’albergo che l’aveva portata lì, pensando che se quella l’aveva ingannata era meglio non insospettirla. Scoprì una scala con l’indicazione lavanderia e la prese, si trovò in quel luogo al piano terra e con una porta. Scostò il chiavistello e l’aprì: dava su un vicolo, vi s’inoltrò e a una svolta vide che immetteva su un viale. Tornò in camera, andò a letto ma non riuscì a dormire. <br><br />La mattina dopo la signora le disse che era libera fino alle tre del pomeriggio, quando avrebbe accompagnato un turista americano in un negozio e di non preoccuparsi perché la strada la conosceva lui. Lei disse che avrebbe fatto un giro nei dintorni, e la signora le raccomandò di tornare puntuale per l’ora di pranzo. <br><br />Olivia uscì, girò l’angolo e prese il vicolo su cui dava la lavanderia, arrivò fino alla svolta, s’inoltrò sul viale, camminò in avanti osservando i punti di riferimento e pervenne all’entrata di un parco. Vi s’inoltrò e girò per i viali con una gran voglia di piangere, ma si faceva forza pensando che forse stava esagerando a sospettare qualcosa di male, e in ogni caso, se fosse stato necessario, aveva il modo di fuggire. <br><br />Alle tre bussò alla porta della stanza n. 22, secondo l’indicazione della signora. <br><br />Aprì un uomo tarchiato di mezza età, con un bicchiere in mano, le sorrise e la invitò a entrare e sedersi, le chiese se voleva un goccio di rhum, ma lei rispose che non beveva e avrebbe atteso che lui fosse pronto per uscire. <br><br />Per andare dove? Chiese lui. <br><br />A fare compre in un negozio, come ha detto la signora. <br><br /> Ah, ho capito, non sei stata informata che sei qui per venire a letto con me… non ti preoccupare, ti pagherò bene. <br><br />Lei, facendo un passo indietro: io non vado a letto con nessuno! <br><br />L’uomo l’afferrò per un capo della sciarpa che teneva appoggiata sul collo ed ebbe un’esclamazione che lei non capì, perché si voltò fulmineamente, imboccò la porta rimasta semiaperta e fuggì come una lepre. Lui uscì nel corridoio - la sciarpa in mano – e, non vedendola, si avviò a gran passi verso la hall. Olivia non c’era, il portiere disse di non aver visto nessuno. <br><br />Difatti la ragazza era scesa dalla scala che portava alla lavanderia e, uscita in strada, sempre di corsa era approdata nel parco scoperto alcune ore prima. <br><br />Seduta sotto un immenso ginko biloba, sopraffatta dalla collera, pensava di tornare subito al proprio paese, nella tasca della giacca aveva il poco denaro portato da casa e il documento d’identità, ma non sapeva come raggiungere la stazione delle corriere. Vinta dallo sconforto, cominciò a piangere. A un tratto vide a lato di sé una bambina che la osservava, la guardò e quella: Llori? Estas mal? <br><br />Olivia tentando di asciugarsi gli occhi e di sorridere, le fece una carezzina e rispose ora passa tutto, non ti preoccupare, ma tu che fai qui, sola? <br><br />Non sono sola, lì ci sono la mamma e mia sorella Julia - e indicò la panca situata dietro su cui erano sedute. Vendendole, la ragazza si rianimò pensando di chiedere alla signora le informazioni di cui aveva bisogno e, alzandosi, la vide venire verso di lei. Era una donna giovane e di gradevole aspetto, che le disse: mi scuso se la mia bambina ti ha importunato. <br><br />Oh, niente affatto… Le posso chiedere un’informazione? <br><br />Certo, dimmi. <br><br />Devo tornare subito al mio paese e non so dov’è la stazione delle corriere… <br><br />Davanti all’uscita ci sono i taxi, ne prendiamo uno e ti accompagno. <br><br />Oh, ero così stonata che non ho pensato ai taxi! - e di nuovo i suoi occhi si riempirono di lacrime<br />Come ti trovi qui senza conoscere la città? Ti è successo qualcosa? <br><br />La ragazza scoppiò in pianto abbandonandosi sulla panca, la signora sedette accanto a lei dicendole non è necessario che mi risponda se non lo desideri, ti aiuterò comunque. <br><br />Grazie della sua bontà, le racconterò tutto, disse Olivia asciugandosi gli occhi. La bambina la guardava col visetto triste, la mamma le disse vai a sederti con Julia, io faccio un po’ di compagnia a questa ragazza e poi la accompagneremo alla stazione. <br><br />La bambina ubbidì. <br><br />Olivia, trattenendo a stento il pianto, le raccontò la sua disavventura, e le parlò anche della ragione per cui si era recata in città. <br><br />Oh, povera ragazza! Sei incappata in una delle sciagurate circostanze purtroppo frequenti nel nostro paese che, a causa della miseria in cui vive tanta parte della popolazione e con la complicità di sfruttatori locali, è diventato una meta anche di turismo sessuale per porci europei e americani. E lodandola per l’accortezza con cui si era sottratta, le disse che desiderava aiutarla a realizzare il suo desiderio di continuare a studiare, perciò si sarebbe interessata per trovarle un lavoro onesto da svolgere il pomeriggio e intanto l’avrebbe ospitata a casa sua. <br><br />Penso che giustamente, dopo quanto ti è capitato – aggiunse - tendi a non fidarti di nessuno, ma spero che crederai nelle mie buone intenzioni. <br><br />Che lei sia una persona per bene l’ho capito subito dalla sua disponibilità e dall’amabilità della sua bambina. Il suo aiuto è una grande ricompensa alla mia disavventura, però mi dispiace arrecarle fastidio. <br><br />Nessun fastidio. Vieni, casa mia non è lontana. <br><br />La donna chiamò le bambine e si avviarono. <br><br />Nell’andare, Olivia disse: se qualche sua amica ha bisogno per i lavori di casa, io li so fare… ma sono disponibile anche per lavare le scale dei palazzi… <br><br />Non sarà necessario. Io ho già una collaboratrice domestica, ma tu sai badare ai bambini? <br><br />Oh, sì, ho seguito i miei due fratelli più piccoli e il bambino della padrona di una piantagione di caffè, li aiutavo a fare i compiti scolastici, gli raccontavo le storie, inventavamo insieme dei giochi. <br><br />Bene, allora il problema è quasi risolto! <br><br />Pensa che potrei occuparmi delle sue bambine? <br><br />Credo di sì, ma dobbiamo prima provare se si troveranno bene con te. Con la ragazza che li seguiva prima non andavano d’accordo… <br><br />Certo, è importante che mi accettino, ma per lei andrebbe bene il pomeriggio? <br><br />Per me è una condizione perfetta. La mattina le bambine sono a scuola e li accompagno io che alla prima ora entro al liceo, dove insegno. All’uscita, passa a prenderli mio marito. Il problema è proprio il pomeriggio perché io devo correggere i compiti, preparare le lezioni e mio marito torna al suo studio di medico. Spero proprio che le bambine ti accettino, risolveremmo il tuo problema e il mio. <br><br />Mentre la signora parlava, a Olivia scappavano le lacrime e la bambina più piccola, Clarice, che aveva ascoltato ma sempre taciuto, come la sorella, prese una mano della ragazza e le disse: non piangere, con te saremo buone. <br><br />La mamma sorrise e la carezzò: non farete capricci, vero? <br><br />No, riposero all’unisono le bambine. <br /> <br> <br><br />La casa era grande e bella e a Olivia parve una reggia. Nel notare i tanti scaffali colmi di libri, ebbe un’esclamazione di felicità. <br><br />Ti piace leggere? Le chiese la signora. <br><br />Oh, sì, ho letto tutti i libri della biblioteca scolastica del mio paese. <br><br />Bene, qui non ti mancheranno. <br><br />Appena entrata nella stanza a lei destinata, ricordò improvvisamente d’aver lasciato il suo bagaglio con gli indumenti nell’albergo dal quale era fuggita. <br><br />La signora la rassicurò: non è un problema, domani compreremo il necessario, questa sera ti darò una mia camicia da notte. <br><br />Troppe emozioni in quella giornata che volgeva alla fine e Olivia si sentiva frastornata, ma reagì, si affacciò nella stanza delle bambine intente a esaminare una carta geografica e chiese se poteva entrare. Le fecero posto al tavolo tra di loro e Julia, la più grande, disse: devo studiare il corso del fiume Chavon, lo sto cercando sulla carta, ma è difficile scoprirlo… <br> <br />La maestra ti avrà detto che è un fiume dal corso lunghissimo che per buona parte scorre al fondo di un canyon spettacolare ricoperto da grandi alberi, come una foresta… <br><br />Sì, e l’ha mostrato sulla mappa appesa alla parete dell’aula, ma questa è piccola… <br><br />Proviamo a trovarlo insieme. <br><br />Ricordava i luoghi attraversati dal fiume e scoprì il corso segnato molto debolmente su quella cartina, perciò lo colorò in rosso dalla sorgente fino alla foce. Poi tornò indietro, segnando i punti di confluenza, le cascate, le deviazioni e spiegando l’influenza del fiume sui territori toccati. Julia provò a rifare e ripetere tutto da sola, talvolta s’impuntava e Olivia interveniva, ma la ragazzina s’impadronì velocemente dell’argomento e, felice, corse a raccontare tutto alla mamma, seguita dalla sorellina anche lei entusiasta. <br><br /> Olivia ebbe il primo successo e un complimento incoraggiante. <br><br />La sera arrivò il marito della signora, e l’ansia della ragazza per l’incontro sparì subito perché, a cena, lui disse di essere contento che lei si occupasse delle bambine. Evidentemente la moglie gli aveva già raccontato tutto, difatti, accennando all’accaduto, manifestò l’opinione che non era opportuna una denuncia per la mancanza di prove, ma lui avrebbe parlato con un funzionario di polizia, suo paziente, perché facesse un’indagine su quell’albergo. <br><br />Oliva ascoltava turbata e commossa, si diceva mortificata per aver provocato tanto disturbo, ma fu immediatamente rassicurata. Era un’occasione, affermò il dottor Pedro, per tentare di colpire delinquenti che organizzavano lo sfruttamento di ragazzine e ragazzini e talvolta con la copertura di poliziotti corrotti.<br />Continuò affermando che situazioni del genere erano diffuse a causa della disoccupazione, tanto alta che i poveri superavano la metà della popolazione. <br><br />Al mio paese c’è povertà, disse Olivia, ma non pensavo fosse così diffusa e grave dappertutto, per questo tante persone cercano lavoro all’estero.<br />Sì, nel giro di pochi decenni, su circa nove milioni di dominicani, ne sono già emigrati più di un milione e settecentomila. C’è tanto da fare, nel nostro Paese, bisogna impegnarsi per creare tra la popolazione una maggiore consapevolezza sociale. <br><br />Se la fortuna mi assiste, disse Olivia, io m’impegnerò. <br><br />Noi ti aiuteremo, lo meriti. Vero Alejandra? – disse il dottore rivolto alla moglie che rispose: certo, le bambine sono entusiaste di lei. E rivolta a Olivia: ci aiuterai a crescerle, sarai come una della nostra famiglia e, ovviamente, ti daremo uno stipendio. <br><br />A Olivia, finalmente, arrideva la fortuna: svolgeva il suo lavoro con scrupolo e al massimo delle sue capacità; le bambine, incantate soprattutto dalla sua vena narrativa, erano felici di stare con lei. A scuola non incontrava nessuna difficoltà e dedicava allo studio ore della sera o dell’alba. <br><br />Dopo qualche mese del suo soggiorno nella casa che l’aveva accolta, ebbe la soddisfazione di sapere che la proprietaria dell’albergo di malaffare era stata arrestata: la polizia, dopo un’accurata indagine, aveva fatto un blitz e sorpreso alcuni turisti con minori nelle loro camere. Le vennero agli occhi i volti tristi degli innocenti lì incontrati e sentì un gran pena per la loro condizione. Si considerò fortunata d’essere sfuggita a quell’orrore, e d’incontrare la signora Alejandra grazie alla quale poteva frequentare la scuola e sperare nel lavoro cui desiderava dedicarsi: insegnare ai bambini, educarli ad acquisire consapevolezza di sé e sentimenti di solidarietà e giustizia. <br><br />Nella casa in cui viveva, non le mancavano le occasioni per arricchire il suo sapere: non solo i libri, ma le conversazioni con i suoi colti ospiti che erano anche un esempio di comportamento ammirevole. Alejandra tornava spesso a scuola di pomeriggio per dare ripetizioni gratuite agli studenti non abbienti che ne avevano bisogno; Pedro dedicava ogni giorno delle ore del suo lavoro per curare persone non in grado di pagare le visite. <br> <br><br /><br />Per la reciproca affezione tra lei e quella famiglia e il desiderio di continuare a seguire la crescita di Julia e Clarice, Olivia vi rimase anche quando cominciò a insegnare in una scuola elementare della città. Durante le vacanze tornava al suo paese con le ragazze e le ospitava a casa della madre rimasta sola poiché la nonna non c’era più e i fratelli lavoravano nell’industria del rhum a Samonà. <br><br />Le conduceva per quel paradiso della natura, ricco di spettacoli grandiosi, come le cascate de las Aguas Blancas, che fanno un salto di oltre milleseicento metri, e l’immensa foresta della Reserva Cientifíca Valle Nuevo. <br><br />Fu lì che un pomeriggio, poco tempo prima di tornare in città, Olivia conobbe un giovane che, incontrando lei e le ragazze su un sentiero della foresta, le avvicinò presentandosi: sono una guida del parco, mi chiamo Juan Rodriquez, posso accompagnarvi per un giro? Accolsero la proposta volentieri, soprattutto Olivia per come fu colpita dalla figura perfetta del giovane e dai suoi caratteri somatici: un insieme di fattezze d’impronta europea tra cui però spiccavano il colorito bruno rosato del viso, gli occhi neri e lucenti, gli zigomi alti, i capelli nerissimi e lisci che le diedero la certezza di trovarsi davanti a un raro esemplare proveniente da incroci tra uomini spagnoli e donne taino. Che bella sorpresa – esclamò - scoprire che non si sono perdute del tutto le tracce degli antichi abitanti della nostra isola! <br><br />Lui, visibilmente compiaciuto, rispose: non sono il solo, in uno dei villaggi di questo territorio, dove sono nato e cresciuto, ce n’erano tanti come me – sì, eravamo tutti imparentati – ora siamo sparsi per vari luoghi, tutti fuggiti in cerca di lavoro. <br><br />Passando sotto un immenso albero, le ragazze ebbero un’esclamazione di meraviglia e Juan: è fra i più antichi della foresta, ha sette secoli – e spiegò la tecnica per stabilire l’età degli alberi. Poi descrisse altre rarità botaniche con una competenza che incantò Olivia tanto che, quando lui, al momento del congedo, le invitò a ritornare l’indomani per continuare la visita, si mostrò disponibile. Dopo essere uscite dal parco, però, le ragazze si ricordarono che il giorno successivo avevano un impegno con loro amiche e Olivia decise che ci sarebbe andata da sola. <br><br />Juan l’accolse con espressione così felice che quasi stava per abbracciarla e, incamminandosi, non appena lei gli chiese in quale parte della foresta si trovava il villaggio dov’era nato, le parlò di sé descrivendo la felice vita brada della sua fanciullezza in mezzo a quella natura straordinariamente lussureggiante, tanto che aveva sofferto molto quando la famiglia si era trasferita a Santo Domingo perché il padre, carpentiere, era stato assunto da una ditta edile; però in città aveva potuto continuare gli studi, aveva frequentato l’università laureandosi in scienze naturali. Da quasi un anno – aggiunse – lavoro come dirigente in una ditta per la tutela dell’ambiente – sì, a Santo Domingo - ma durante le ferie torno qui, dove ho fatto la guida tutte le estati per contribuire a mantenermi agli studi, e anche per la passione che mi lega a questo luogo. Poi chiese di lei che, non avendo voglia di parlare della sua lontana disavventura, disse semplicemente che era andata a Santo Domingo per studiare e aveva trovato lavoro in una meravigliosa famiglia come baby-sitter delle bambine e, dato l’affetto reciproco, era rimasta anche dopo aver cominciato a insegnare. <br><br />Ah, allora potremmo incontrarci in città al nostro ritorno. Mi farebbe piacere, posso cercarti? <br><br />Olivia arrossì di piacere e si scambiarono i numeri di telefono. <br><br />Tornò a casa felice e raccontò tutto ad Alejandra che, sorridendo, notò: ah, ora ho capito perché tanto interesse per tornare alla riserva scientifica! Sono contenta, speriamo sia un bravo giovane. Se vuoi, Pedro conosce persone di qui che gli possono dare informazioni sul ragazzo e la sua famiglia. È sempre bene sapere chi si frequenta, no? <br><br />Sì, e ti ringrazio. <br><br />Juan è un ragazzo virtuoso, i suoi familiari onesti lavoratori, fu l’esito delle informazioni. <br><br />Tornata a Santo Domingo, Olivia si mise in attesa della telefonata di Juan che arrivò dopo qualche giorno e per la felicità che ebbe, fu certa di esserne innamorata. L’incontro fu emozionante e si abbracciarono spontaneamente. <br><br />Continuarono a vedersi quasi tutti giorni, Juan non fece passare molto tempo che le chiese di sposarlo, di essere presentato a sua madre alla prima occasione di un ritorno al paese, e ai suoi ospiti. <br><br /> Alejandra accolse contenta la notizia e disse a Olivia di invitare il giovane a cena per la sera successiva.<br />Lui si presentò con un mazzo di rose e fu accolto con grande gentilezza dai coniugi, un po’ ombrose le ragazze. Quando lui se ne andò Olivia ascoltò, ansiosa, il loro parere e i commenti. <br><br />È un bel ragazzo, simpatico ed espansivo e sembra in gamba, disse Pedro. <br><br />Sì, confermò Alejandra, però il suo sguardo mi è sembrato sfuggente… <br><br />Ma no, forse era un po’ intimidito, è comprensibile, no? Osservò Pedro. <br><br />Speriamo sia come dici tu, rispose la moglie. E intanto, Clarice, rivolta a Olivia: se ti sposi con lui, te ne vai in un’altra casa… – e aveva il pianto nella voce. <br><br />Olivia l’abbracciò: sì, ma staremo vicine. Ho scoperto che c’è un piccolo appartamento in vendita a due passi da qui e ho deciso che lo compreremo, così farò venire con me mia madre che è rimasta sola. <br><br />Lo compreremo noi a tuo nome, disse Alejandra. <br><br />Oh, no, mi basterà il denaro dello stipendio che mi avete dato in questi dieci anni. <br><br />Intervenne Pedro: quello è il tuo gruzzoletto di risparmi, ti servirà per l’arredamento, Juan lavora da meno di un anno, quindi non potrà avere gran che da parte, no? L’appartamento sarà la liquidazione che ti spetta per gli anni del tuo lavoro. <br><br />Insonne per tutta la notte, Olivia avrebbe voluto sentirsi contenta, si diceva che c’erano tutte le ragioni per esserlo ma l’osservazione di Alejandra la tormentava. Possibile non avesse mai notato che lo sguardo di Juan fosse sfuggente? A lei era sempre sembrato limpido, leale… Oppure è parso così ad Alejandra perché lui si sarà sentito in imbarazzo per come l’ha guardato? Sarà così, cercò di convincersi alla luce dell’alba, Alejandra, quando desidera capire com’è una persona, la fissa con insistenza. <br><br />Nei giorni seguenti, però, di tanto in tanto le tornava il dubbio e, lei che di solito lo guardava amorevolmente, scrutava Juan come volesse leggergli nell’anima, accorgendosi che lui distoglieva lo sguardo. Avrebbe voluto chiedergli perché, ma non lo faceva pensando fosse un moto comunemente istintivo. <br><br />Si sposarono e abitarono nella casa di Olivia. Data la vicinanza, le ragazze si consolarono e continuarono a essere legatissime a lei che, memore della propria adolescenza, sapeva aiutarle a elaborare le loro inquietudini. E le incontrava spesso, anche dopo aver messo al mondo un bambino e nonostante i suoi impegni di lavoro: oltre a insegnare nella scuola pubblica la mattina, per alcune ore di tre pomeriggi a settimana si dedicava volontariamente all’educazione di bambini poveri o orfani raccolti dalla strada da una missione creata da monache benedettine. <br><br />Anche Juan s’impegnava molto nel lavoro che corrispondeva al suo interesse per la tutela della natura e se talvolta la sera si attardava in ufficio e rientrava tardi, Olivia non se ne lamentava: si amavano e condividevano idee e gusti. Perciò l’offuscarsi improvviso del suo umore fu come un sopraggiungere di nubi a oscurare il cielo. Cominciò una sera che Juan rientrò cupo e silenzioso: discussioni fastidiose sull’organizzazione dell’ente – disse – non vale la pena parlarne. <br><br />Non pensi che se riflettessimo insieme potremmo trovare una via d’uscita? – gli chiese Olivia. <br><br />Non c’è, si tratta di teste dure. <br><br />Lei, notando la persistenza del suo umor nero, si preoccupava e tentava ancora di sapere, ma invano. Un giorno gli disse: non puoi andare avanti così, lascia l’incarico e dedicati all’insegnamento. <br><br />Sono stanco, vado a dormire, rispose lui. <br><br />Dispiaciuta per l’impazienza del marito, lei decise di non insistere più, sperando che trovasse da solo la soluzione alle misteriose divergenze. <br /> <br> <br><br />Un giorno, appena arrivata a casa al ritorno da scuola, sua madre le disse: nel tuo studio c’è una sconosciuta con un bambino in braccio, dice di chiamarsi Maria del Mar e che è stata mandata a te dalle monache della missione. <br><br />Entrò e l’ospite si levò salutandola. Era giovanissima, quasi una ragazza, e molto attraente. Teneva il bambino dormente stretto al petto. Sedendosi all’invito di Olivia, le disse: come ho riferito a tua madre, vengo da te su consiglio delle monache che si occupano dei bambini abbandonati. Mi ero rivolta a loro perché non posso tenere mio figlio e non voglio portarlo al brefotrofio. Sono sola, lavoro per una ditta di pulizie, comincio alle cinque del mattino e finisco nel tardo pomeriggio. Devo riprendere il lavoro tra qualche giorno altrimenti mi licenziano, è già un miracolo che mi abbiano concesso questo mese. A chi lo lascio? Non posso portarlo al paese dai miei genitori, mi prenderebbero per una svergognata, non posso dargli questo dolore. Le monache mi hanno detto che non possono tenere i bambini piccoli e mi hanno consigliato di rivolgermi a te che forse tra le famiglie dei tuoi alunni potresti trovarne qualcuna disposta ad adottarlo. <br><br />L’uomo che è suo padre, non può aiutarti? <br><br />No, voleva che abortissi, io non l’ho voluto fare, e lui mi ha detto di portare il bambino al brefotrofio perché ha famiglia e non se ne può occupare. Immagino cosa pensi e hai ragione, non dovevo mettermi con un uomo sposato, ho sbagliato a cedergli, mi sono innamorata e non ho pensato alle conseguenze. Sono stata incosciente, è vero, però, credimi, non sono una che andava con gli uomini… Mi sono sempre guadagnata la vita lavorando onestamente, riuscendo anche a pagare senza problemi la pigione del piccolo monolocale a piano terra dove abito. Oh, stavo bene, sì. Poi mi hanno mandato a fare le pulizie in un altro ufficio, ed è stata la mia rovina. L’ho incontrato lì… la prima volta fu accanto alla macchinetta del caffè, nel corridoio, mi avvicinai per prenderne una tazza, c’era lui che aspettava il suo e volle offrirmelo. Così nei giorni successivi. Arrivava sempre quando io avevo terminato le pulizie e stavo per andarmene e s‘interessava a me, mi chiedeva come mi trovavo in città, se il lavoro era pesante, se ero sola. Per farla breve, cominciò a dirmi che gli piacevo, a chiedermi di stare con lui, ma senza impegno – questo per la verità me lo disse subito – perché era sposato, ma mi avrebbe voluto bene e rispettata. Ed io, cretina, ho ceduto. Ci vedevamo due volte a settimana, veniva da me la sera quando usciva dall’ufficio. Una volta gli ho chiesto di parlarmi della sua famiglia e mi ha risposto che quella domanda non dovevo fargliela. Volle anche che chiedessi alla ditta di cambiarmi quel posto di lavoro con un altro perché non gli piaceva che i suoi colleghi ci vedessero scambiare qualche parola. Sapevo solo il suo nome, Jacopo, se è quello vero… così mi aveva detto di chiamarsi, ma un giorno ho sentito un uomo salutarlo hola Juan, e lui, pronto: il mio collega è un po’ svanito, sbaglia sempre il mio nome. Gli ho creduto, ora penso invece che m’imbrogliasse. <br><br />Olivia, a sentire quel nome, si turbò e, cercando di controllarsi, continuò ad ascoltare attentamente. <br />Dopo poco più di un anno – seguitò la giovane – sono rimasta incinta ed è stato l’inferno: mi diceva di abortire e poiché io non volevo, minacciava di lasciarmi e si faceva vedere solo qualche volta a settimana. Io lo pregavo piangendo di non lasciarmi, gli dicevo che volevo tenere il bambino perché mi ripugnava fare quella cosa brutta e perché era una creatura anche sua. Lui a dirmi che se portavo avanti la gravidanza peggio per me, non poteva occuparsi del bambino perché aveva famiglia e una sera mi disse che ormai non potevo più lasciare passare tempo, perciò che fissassimo il giorno della prossima settimana in cui lui mi avrebbe fatto accompagnare da una donna nel posto dove avrei subito l’aborto. Levatelo dalla testa! - gli risposi - e lui, senza dire una parola, girò le spalle e se ne andò sbattendo la porta. Non si fece più vedere ed io non lo cercai. <br><br />Ho portato avanti la gravidanza per fortuna senza problemi così ho potuto lavorare fino a quando mi sono venute le doglie sul posto di lavoro e hanno chiamato un’ambulanza che mi ha portato in ospedale in tempo perché non nascesse per la strada. Già, per fortuna il parto è stato facile! <br><br />Nato il bambino, ho sperato che, vedendolo, il padre si commuovesse e cambiasse idea, perciò, appena uscita dall’ospedale sono andata nel suo ufficio e l’ho pregato di venire a vederlo. Mi ha trattato male, mi ha detto che avevo tentato di ricattarlo mettendo al mondo il bambino, che mi aveva avvisato della sua impossibilità di occuparsene, perciò che lo portassi al brefotrofio e mi levassi per sempre dai piedi. <br><br />Me ne sono andata disperata e, arrivata a casa di una mia vicina che si era offerta di tenermi il figlio, ho tentato di allattarlo perché piangeva dalla fame, ma il latte mi era sparito. La mia amica gli ha fatto acqua tiepida con lo zucchero, ma il latte non mi tornava, così ne ho comprato uno artificiale, in attesa che mi tornasse. Non mi è più venuta una goccia, per fortuna quello consigliato dalla farmacista va bene… <br><br />In quel momento il bambino si svegliò e la mamma, prendendo dalla sacca un barattolo e un biberon, li porse a Olivia chiedendole il favore di preparare la poppata. Olivia prese gli oggetti e andò in cucina. Mentre aspettava che l’acqua bollisse, ebbe un accesso di pianto e dovette fare uno sforzo enorme per calmarsi, dicendosi che stava diventando ingiustamente diffidente nei confronti di Juan per la casuale corrispondenza del suo nome con quello del padre del bambino e con il suo misterioso malumore. Bagnò e asciugò il viso e portò il biberon pronto a Maria del Mar che le porse il figlioletto, dicendole: glielo vuoi dare tu, così io vado un momento in bagno? Olivia lo prese, sedette e, tenendolo sulle ginocchia, lo fissò e si sentì venir meno scorgendo che sì, quel visetto era taino! Disperata, arrabbiata per il rinfocolarsi dei sospetti e contemporaneamente vinta da immensa pietà per quella creatura, prese una decisione irrevocabile. <br><br />Quando Maria rientrò, le disse: tenendolo in braccio ho pensato che tuo figlio lo adotto io… ho un bambino di due anni, pensavo di regalargli un fratellino, e l’hai portato tu. Se ti fidi, puoi lasciarmelo già, intanto preparerò le pratiche per l’adozione. Puoi venire a vederlo quando vuoi e quando sarà il momento giusto, gli diremo che la madre naturale sei tu. <br><br />La giovane si abbandonò su una sedia, coprì il viso con le mani e proruppe in singhiozzi. Quando riuscì a parlare, esclamò: le monache mi hanno detto che sei una persona buona, ma una santa sei! E dopo una pausa: e tuo marito, sarà d’accordo? <br><br />Penso di sì, non mi sconterà. Il bambino mi piace e desidero venirti incontro, non perché sia buona e tanto meno una santa, perché mi sembra giusto farlo. <br><br />Maria si levò e si abbracciarono commosse. Poi, presa dalla borsa la carta d’identità gliela porse: copia il mio indirizzo, per favore, a casa non ho il telefono… <br><br /> Sì, ti avviserò appena le carte saranno pronte, ma tu vieni quando vuoi. <br><br />Uscì dallo studio, tornò dopo un po’ con una carrozzella a mo’ di lettino: questa era di mio figlio, l’ho conservata per il prossimo che pensavo di avere… per ora adagialo qui, questa sera farò portare su la culla che è nel magazzino dabbasso... lascia il biberon e la scatola del latte, domani mi rifornirò. <br><br />Nell’accompagnarla all’uscita, non riuscì a trattenere più la domanda che sentiva impellente e temeva di farle: che ufficio è quello del padre del bambino? Dov’è situato? <br><br />Maria, preoccupata: è necessario parlare con lui? Non l’ha riconosciuto, perciò non ci vuole il suo consenso. <br />No, non è per questo, è una mia curiosità. <br><br />La giovane si rasserenò, le disse il nome e l’indirizzo dell’ufficio e uscì. Olivia si appoggiò allo stipite della porta per come le tremavano le gambe: i dati ottenuti corrispondevano esattamente al luogo di lavoro Juan. In quel mentre, rientrò dal vicino parco sua madre con il nipotino e, vedendola sconvolta, chiese preoccupata che era successo. <br><br />Niente di grave, stai tranquilla, poi ti racconterò. Porta il bambino nella camera dei giocattoli, io vado a preparargli la cena. <br><br />La nonna, lasciato il bambino a giocare, si affrettò a raggiungerla in cucina: Ho incontrato per le scale quella ragazza senza il bambino, dove l’ha lasciato? <br><br />Glielo l’ho fatto lasciare qui, sta dormendo nello studio, l’ha avuto da un uomo sposato che non l’ha voluto riconoscere e non può tenerlo perché è sola e deve lavorare dall’alba al tramonto. Mi ha chiesto di aiutarla per un’adozione e ho deciso che lo adottiamo noi. <br><br />Hai telefonato a Juan? <br><br />No, ma lui non si opporrà, perché sicuramente è il padre, e se non lo è, bene per lui. Sono certa che in ogni caso acconsentirà. <br><br />Oh, Jesus, ma che stai dicendo? Juan sarebbe capace di tutto questo? <br><br />Già, quando lo vide la prima volta, Alejandra colse in lui qualcosa che la fece dubitare della sua lealtà e oggi, per le coincidenze notate, penso che avesse colto nel segno. <br><br />Quali coincidenze? <br><br />Lei gliele elencò e la madre, piangendo: saranno casualità, a volte il diavolo ci mette lo zampino. <br><br />Questa sera lo sapremo, ma tu preparati ad accogliere questo nuovo nipotino: comunque stiano le cose lui è innocente. <br><br />Oh, questo sì, non dubitare, ma io spero che sia innocente anche Juan. <br><br />Vorrei sperarlo anch’io, ma non riesco. <br><br />Pensi che se fosse colpevole te lo dirà? <br><br />Sì, non credo sia fedifrago fino al punto di mentirmi ancora, ma se dovesse farlo, io capirò.<br /> <br> <br><br />Nei tre anni del loro matrimonio, avevano avuto qualche discussione, ma sempre calma. Quella sera, invece, Juan alzo la voce: sei pazza! <br><br />Rientrato cupo come da un certo tempo, salutò con un ciao, si abbassò a dare un bacio al bambino corsogli incontro, si tolse la giacca ed entrò in bagno. Poi si diresse in cucina, fece una carezza a Olivia che senza girarsi continuò a rimestare la minestra, dicendo che buon odore, si mangia subito? <br><br />Lei coprì la pentola, spense il fornello, lo guardò fisso e gli disse: dopo, ora vieni nello studio a conoscere il tuo secondogenito. <br><br />Lui allibì, per un attimo rimase impalato e muto e poi: che idiozia è questa? <br><br />Quella che hai commesso tu, vieni – e tirandolo per la manica della camicia lo condusse nello studio fermandosi davanti alla carrozzella: guarda il tuo figlioletto, taino come te! <br><br />Sei pazza! Chi è questo bambino, chi l’ha portato qui? E continuava a gridare che lui non c’entrava niente, che sua moglie stava cadendo in un terribile tranello, e girava per la stanza senza posa, il viso avvampato e sudato. <br><br />Lei, seduta perché le gambe non la reggevano, lo guardava con un’espressione insieme ironica e dolente, ma si alzò perché il bambino si era svegliato e piangeva, lo prese, glielo pose davanti, ma Juan si scostò. Lei chiamò la madre e glielo porse, le disse di preparargli una poppata. Poi tornò a sedere e con voce ferma gli disse: ascolta! <br><br />E lui: non c’è niente da ascoltare! <br><br />Invece sì, ho le prove. <br><br />Che prove? In questo paese ogni tanto nasce un taino! <br><br />Per ora chiamiamolo un indizio, ma ce ne sono altri così chiari che non vale la pena di cercare conferme probatorie, perciò è meglio che smetti la sceneggiata e mi ascolti. <br><br />Va bene, sentiamo. Sedette e stette ad ascoltare: la testa tra le mani e la disperazione nello sguardo.<br />Lei cominciò a raccontare per filo e per segno, sempre guardandolo e vedendo i suoi occhi ora fuggire, ora diventare fissi e vuoti, ora impauriti come di un animale braccato, tanto che in certi istanti lei sentiva quasi pietà, ma continuò imperterrita e, al termine della storia disse: ora il bambino è qui e ci resta, lo adotteremo, ma tu te ne vai da questa casa. <br><br />Lui scoppiò a piangere, cominciò a chiederle perdono, a protestare d’amarla, a dire di aver ceduto a una passione fisica passeggera e quella ragazza, intuendo che lui voleva rompere la relazione, aveva fatto in modo di avere un bambino per intrappolarlo. <br><br />E lei: ora basta! Posso comprendere la passione, ma non la tua slealtà: avresti dovuto dirmelo, avrei capito e cercato insieme una soluzione, ma non posso avere più per te un minimo di stima per come ti sei comportato con quella ragazza inerme e con questa creatura che volevi fosse abbandonata tra i figli di nessuno. Questa notte dormi sul divanom ma domani farai i bagagli e te ne andrai in un albergo in attesa di trovarti un alloggio. Se acconsenti, divorzieremo in maniera consensuale, altrimenti cercati un avvocato. Se vuoi mangiare, mia madre ha già apparecchiato la tavola, io non ho fame. <br><br />Lo lasciò più morto che vivo e uscì dallo studio.<br /> <br> <br><br />Juan se ne andò all’alba soltanto con una sacca, lasciò una lettera per Olivia piena di rimpianto e di richieste di perdono, ma dichiarandosi disposto ad accettare le condizioni da lei poste come un castigo meritato. Avrebbe mandato qualcuno a ritirare le sue cose, e la pregava di telefonargli per fissare un abboccamento perché desiderava che parlassero ancora. Lei gli telefonò dopo alcuni giorni soltanto per comunicargli la data in cui sarebbe stata formalizzata l’adozione del bambino. In quell’occasione lui tentò ancora di ottenere un incontro, ma inutilmente. S’incontrarono soltanto il giorno in cui il tribunale concesse loro la separazione consensuale e lui le disse che sarebbe presto partito per gli Stati Uniti, dove aveva trovato lavoro, ma sarebbe tornato nei periodi di ferie per rivedere i bambini, e avrebbe regolarmente adempiuto i suoi doveri per il loro mantenimento. <br><br />L’anno successivo tornò per alcuni giorni. Tentò ancora un approccio di pace ma Olivia non fu disponibile: più volte aveva dubitato d’essere stata dura ma, rivedendolo, scorse sul suo viso un’impronta d’ipocrisia per cui ritenne che la sua decisione fosse stata l’unica possibile, e giusta. <br><br />Juan ripartì e sparì: dopo due anni che non arrivava alcun segno di lui, Olivia, temendo gli fosse successo qualcosa, presa da scrupoli si rivolse al Consolato e seppe che era vivo e sano e stava con un’altra donna. Fu quasi contenta perché liberata da quella sorta di pena che di tanto in tanto la prendeva a tradimento, e decise di non chiedergli nulla. <br><br />Serena, continua a insegnare nella scuola e nella missione e a occuparsi dei figli insieme alla madre del bambino adottato, che ha sollevato dal faticoso lavoro accogliendola in casa come Alejandra aveva fatto con lei. <br><br /> <br><br /><i>Roma, novembre 2010<br />Sara Zanghì</i><br />laura-cihttp://www.blogger.com/profile/12587159250603555673noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7544197850826823125.post-24894751058956697162012-11-24T05:46:00.001-08:002012-11-24T05:52:29.523-08:00La canteora gitanaRicordavo la casa del Sacromonte<span style="font-size: xx-small;">1</span> situata su una radura sotto il colle Valparaiso, e soprattutto lei, la canteora gitana che una sera d’aprile del 2000 festeggiava il suo ottantesimo compleanno con i sodali e avevo avuto la ventura di esserci anch’io, grazie a una comune amica. <br />
Ricordavo perfettamente la sua figura agile nonostante l’età, lo splendore degli occhi appassionati e l’amabile volto appena segnato da qualche ruga, i capelli bianchissimi raccolti in una crocchia.<br />
Aveva cantato per noi, e tante volte mi era tornato il suono della sua voce nel cante por tango flamenco con sequenze incalzanti e vive, accorata nei cadenzati accenti por farruca evocanti la nostalgia dell’esule per la terra d’origine, e profonda nel Cante Jondo pervaso di dolore, senso di mistero e fatalità peculiari del mondo andaluso che ispirò a Federico Garcia Lorca il Romancero gitano.<br />
<a name='more'></a><br />
Non immaginavo, allora, che sarei ritornata dopo dodici anni, e invece eccomi, in una limpida giornata di settembre, seduta accanto a Estéla davanti alla vetrata aperta sullo splendore dell’Alhambra e sul corso del Darro che scorre tra i due versanti della vallata, fiume evocante leggende come le grotte imbiancate a calce risuonanti degli arpeggi di chitarre e canti gitani di un tempo lontano. <br />
Felice di ritrovare questa straordinaria donna, lucida e piena di vitalità fisica alla bella età di novantadue anni, le chiedo se vuole raccontarmi la sua storia della quale ho soltanto cognizioni approssimative. Risponde di non averne mai parlato estesamente per non evocare avvenimenti terribili che invece le tornano nel ricordo contro la sua volontà, e riflette un po’, la mano sulla fronte, poi dice che proverà, può darsi che se ne liberi per i giorni che le rimangono. E comincia la sua narrazione nel musicale accetto andaluso, intrecciando gli avvenimenti soggettivi a quelli storici, tenendomi avvinta all’ascolto. <br />
È nata nel 1920 in quella grande casa che suo padre aveva avuto in eredità dal nonno di cui potava il nome, Esteban. Allora c’era anche l’officina per la produzione artigianale del rame, atavica tradizione familiare, ma oltre ai manufatti di utilità casalinga, il padre creava oggetti esornativi e bigiotteria: vasi cesellati con figure di fiori, animali, segni dello zodiaco, e imitazioni di gioielli, come il medaglione a forma di stella che lei mi mostra dicendo di considerarlo più prezioso di ogni gioia autentica perché il padre l’ha fatto il giorno della sua nascita. E con orgoglio parla del senso estetico e la straordinaria abilità di maestro Esteban nel realizzare la bellezza con le mani, della sua perizia anche come chitarrista. Era stato allievo di un bravo musicista insieme a due ragazzi e alla loro sorella, Morayma, che suonava le nacchere e la mandola, uno dei fratelli il violino e l’altro la fisarmonica. Invogliati dal maestro, gli allievi eseguivano dei brani musicali nella sua casa, dopo un certo tempo a Esteban venne l’idea di formare una piccola orchestra e suonare le sere di vigilia festiva in uno spazio ricavato nell’officina del padre per chiunque volesse assistervi. Ben presto ebbero un pubblico entusiasta: quando il suono cominciava a diffondersi, accorrevano persone del quartiere così numerose che occupavano anche parte dello spiazzo. Finì che un gitano benestante di nome Ramón, proprietario di un caffè del luogo, li assunse per tenervi concerti di flamenco. Dopo un paio di anni, non ci furono matrimoni o altre feste per il circondario in cui quei ragazzi non fossero chiamati a suonare. <br />
Intanto, Esteban e Morayma si erano innamorati e si sposarono. Si amavano e condividevano molte cose: le tradizioni della medesima antica tribù, la passione per la musica e un senso etico rigoroso che gli imponeva di vivere del proprio lavoro. Il padre della ragazza era un fabbro ferraio e anche lui lavorava in proprio in un locale di sua proprietà. Erano gitani agiati, discendenti da famiglie stanziali nel territorio da molto tempo e integrati nella comunità locale, una condizione privilegiata e di pochi, tra tanti poveri, ma allora non era rara.<br />
Morayma ed Esteban ebbero due figlie: Estéla e Juanita. Non vollero una famiglia numerosa per il desiderio di assicurare il benestare alle bambine e anche perché entrambi tenevano a mantenere il loro tenore di vita consistente nel lavoro e nell’attività artistica. Lui continuava il suo mestiere artigianale e lei badava da sola alla casa e si curava delle bambine. Era dotata di una bella voce ma non volle mai cantare in pubblico per non avere tanti occhi solo su di lei mentre, suonando, non era tanto esposta agli sguardi perché stava nel gruppo. A casa, però, cantava nelle feste parentali e sopratutto ogni giorno, appena si alzava dal letto.
Fino all’avvento del terrore – racconta Estéla - ogni mattina mi svegliavo al suono del suo canto, e cantando veniva ad aprire la finestra, o gli scuri se era freddo, della camera che dividevo con mia sorella, incitandoci a levarci con dolcissimi ritornelli scherzosi simili a questo: Peinate tù con mi peine /que mis peines son de azucar/ quien que mis peines se peina/ hasta los dedos se chupa.<span style="font-size: xx-small;">2</span> E cantava anche versi del Romancero Gitano di Lorca: Verde que te quiero verde/verde viento, verdes ramas./ El barco sobre la mar/ y el caballo en la montaña.3 Per la forte propulsione che mi veniva, cominciai a imitarla prima ancora di saper pronunciare chiaramente le parole, però la tonalità era quella della sua voce. <br />
Crescevano veramente contente lei e Juanita, frequentavano la scuola, imparavano a suonare gli strumenti dai genitori che, felici per il timbro della voce di Estéla, decisero di mandarla anche a una scuola di canto. Juanita aveva il talento del disegno e cominciò a frequentare un corso pomeridiano per imparare la tecnica. Era brava, creava disegni originali che poi il padre riproduceva nella bigiotteria di rame.<br />
A quindici anni, con trepidazione, Estéla accettò di cantare nel caffè di Ramón, dove si esibiva l’orchestra dei suoi familiari, e andò così bene che trovò il coraggio di accettare l’ingaggio.<br />
Dopo un anno successe il finimondo: lo scoppio della rivolta armata guidata da tre generali monarchici e fascisti contro il governo del fronte popolare, formato dalla sinistra e dai repubblicani, che aveva vinto le elezioni. Era il luglio del 1936. Due dei generali rivoltosi erano i capi del movimento reazionario “Giunta Militare” e l’altro, Francisco Franco, era l’ultranazionalista della Falange spagnola.
Iniziò così la sanguinosa guerra civile e nel giro di pochi mesi, morti i due generali della Giunta, Francisco Franco unificò tutti i movimenti nazionalisti nel partito della Falange autoproclamandosi il capo, e assunse da solo il comando.
Con i falangisti erano schierati tutti i reazionari: gli apparati militari eccetto l’aviazione, gli agrari, i ricchi borghesi, i cattolici retrivi; contro di loro i contadini, gli operai, i minatori, gli artigiani, i borghesi progressisti, gli intellettuali e gli studenti, ossia la maggioranza della popolazione a favore della quale accorsero volontari da altri Paesi. Franco, però, ebbe notevoli aiuti di uomini, armi, mezzi blindati e aerei da Mussolini Hitler e Salazar. <br />
La terribile guerra civile, che fece quasi un milione di morti, terminò nel marzo del ’39, con la presa del potere di Francisco Franco che cominciò a imporre la sua tirannia e il terrore consolidando l’inferno già attuato dai falangisti sin dall’inizio del conflitto: all’ordine del giorno l’assassinio e la desaparición di marxisti, anarchici, democratici. Tra i primi desaparecidos, Federico Garcia Lorca che aveva redatto e firmato, assieme a Rafael Alberti e altri 300 intellettuali spagnoli, un manifesto d'appoggio al Frente Popular apparso il 15 febbraio di quell’anno sul giornale Mundo Obrero. Il poeta era già sotto la mira dei falangisti perché socialista e omosessuale. Lo presero in un’imboscata, lo portarono a Viznar, un paese situato nel parco nazionale della Sierra Huértos, e di lui non si seppe più niente. Certamente lo uccisero, anche se nessuno ha mai detto di aver visto. Dalle indagini fatte in quella zona dopo la fine della dittatura, sono emerse delle fosse comuni con resti di scheletri. Alcuni dei frammenti ossei, secondo i risultati delle analisi, pare che siano di Lorca, ma una delle leggende sorte dopo la sua sparizione vuole che, fucilato, fosse stato creduto morto e abbandonato in un fossato, dove un carrettiere di passaggio, accorgendosi che era ancora vivo, lo raccolse portandolo a casa e curandolo. Ma non lo riconobbe e, poiché l’uomo era dimentico di sé e di ciò che gli era successo, appena guarì, lo affidò a un istituto di alienati, nella periferia di Granata. Qui lo sconosciuto continuava a non ricordare assolutamente nulla e si aggirava con aria smarrita nel parco finché sparì dall’istituto e comparve per le vie del centro, mendicando e dormendo in ripari di fortuna. Spesso entrava nel bar di cui era stato abituale frequentatore il poeta, si guardava intorno pensoso ma poi i suoi occhi si svuotavano e chiedeva un caffè. Pur non riconoscendolo, glielo offrivano. Un giorno di tanto tempo dopo, caduta la dittatura, il mendico, vagando per la strada, vide un cartellone con una foto di Lorca e l’annuncio della rappresentazione di una sua un’opera teatrale. Si fermò, guardò prima incerto, poi portò le mani alla testa emettendo un grido lacerante e cadde, colpito da un infarto. Fu riconosciuto all’obitorio.
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Una dittatura feroce, continua Estéla, che distrusse ogni autonomia dei gruppi sociali sconfitti, soppresse tutti i diritti di espressione, incarcerò i sospettati di colpe contro il regime torturandoli per avere rei confessi da mandare in galera e usarli in lavori forzati, o fucilarli, condanne facili da ottenere con i processi celebrati dai tribunali militari. E uccisioni e rapimenti perpetrati in agguati. I prigionieri di guerra furono ridotti in schiavitù, perseguiti gli omosessuali cui, dopo un periodo di sottoposizione a una dura ‘rieducazione’ di batoste e violenze d’ogni tipo, fu applicata la “Legge sui malfattori e vagabondi” comportante divieto di soggiorno e internamento in campi di lavoro e luoghi di pena. Molti finirono suicidi per disperazione. La legge colpì anche i gitani poveri, e pesanti discriminazioni patirono anche quelli che vivevano di lavoro.<br />
Dure le condizioni per le donne. Nel lavoro, a parità di mansione, erano sempre pagate meno degli uomini ed era loro proibito esercitare il commercio, andare a scuola oltre un certo grado, chiedere il passaporto. Alle sposate era vietato lavorare e dovevano essere licenziate se avevano un’occupazione prima del matrimonio. Potevano sposarsi, o farsi monache, soltanto dopo il compimento dei venticinque anni, ma dovevano passare dalla tutela paterna a quella del marito e nelle case erano come delle serve. Se qualche donna andava via da casa, era tacciata di prostituta. <br />
Nessuna voce si levò dalle gerarchie ecclesiastiche che tollerarono in silenzio tutti i delitti contro la persona perpetrati dalla dittatura franchista.
L’assoluta condizione d’isolamento e di autarchia imposta dal regime, oltre che indurre un regresso culturale e civile della Spagna, causò un enorme impoverimento generale. La mano d’opera fu soggetta a disciplina coercitiva, e sulla fame dei lavoratori furono raccolti i capitali necessari alla ricostruzione del dopoguerra e alla costruzione dei mausolei franchisti.<br />
Tanta parte del popolo spagnolo aveva vissuto nella povertà, ma durante il regime dilagò la miseria in maniera terribile, mentre i gerarchi accumulavano ricchezze, soprattutto Francisco Franco che alla sua morte lasciò agli eredi diciotto tenute e quattro milioni di pesetas, a quel tempo una cifra enorme.<br />
I genitori di Estéla, come tutti i gitani che avevano possibilità economiche, aiutavano i bisognosi, ma lo poterono fare fino a un certo punto. Data la discriminazione etnica, la gente non gli faceva più commesse di articoli artigianali e il lavoro mancava e quindi anche gli introiti. L’orchestra non era più richiesta nelle feste perché nessuno aveva voglia di farne, anche i locali di svago diminuirono l’attività perché tenuti d’occhio dalla milizia franchista e da spie che orecchiavano i discorsi dei presenti. Ramón, però, continuava a organizzare le serate musicali nel suo caffè per venire in aiuto agli artisti e anche per portare avanti un’iniziativa volta a tenere desta la resistenza morale al franchismo, curando di far circolare clandestinamente testi che ne ribadivano le ragioni. Tale compito era svolto dal medesimo Ramón insieme a Esteban e ai due fratelli di Morayma, in contatto con alcuni intellettuali redattori dei testi. Questi facevano arrivare al locale il plico delle copie ciclostilate nascosto nel fondo delle ceste di patate e cipolle del carretto che settimanalmente le portava per la preparazione di tortillas da servire, insieme alle tapas di cheso e prosciutto serrano, come aperitivi agli avventori. Il proprietario, prima di consegnare le ceste in cucina, cercava il plico e lo deponeva in una buca scavata nel muro portante del bagno, dietro alcune mattonelle ammucchiate come per riserva utile a sostituire eventuali rotture e, a copertura, un quadro con una scena di corrida. Un giorno a settimana, mai il medesimo, uno o l’altro degli orchestrali divideva il plico in due metà e le consegnava a due persone che, fatte successive divisioni, le distribuiva ad altre che continuavano la catena finché tutti gli amici e compagni venivano in possesso dei materiali politici. <br />
Agivano con la massima prudenza per non suscitare sospetti tra gli spettatori ed evitavano di fare, nel locale, qualsiasi accenno alla situazione politica, tenendo a bada l’angoscia per l’inferno che tutti vivevano e in cui era affondato anche il resto del mondo per l’avvento della guerra.
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Afflitta come gli altri, Estèla non pensava proprio a sposarsi, al contrario della sorella minore che si era fidanzata con un giovane di Granata impiegato in una società finanziaria. Ai familiari della ragazza quell’occupazione non piaceva per i noti metodi di strozzinaggio usati da quel genere di aziende, ed erano perplessi perché temevano che il giovane, non essendo gitano, condividesse nel profondo i diffusi pregiudizi etnici. Juanita assicurava che Diego era tollerante e buono e soprattutto profondamente innamorato di lei. Il padre, però, considerando la sgradevolezza fisica del giovane a causa della sua pinguedine, sospettava che lei volesse sposarlo solo perché percepiva un regolare stipendio, fattore di sicurezza in quei tempi grami che attraversava anche la loro famiglia, e più volte le chiedeva: perché mai, bella come sei, vuoi unirti con un pallone di lardo? Juanita però rimaneva ferma nella propria decisione: che importa? Ha un animo gentile e mi ama. <br />
Si sposarono e Diego insistette perché abitassero in un appartamento da lui preso in affitto al centro di Granata, rifiutando di stabilirsi in una parte della grande casa dei suoceri con servizi ed entrate indipendenti. Sicuramente aveva percepito di non essere bene accetto dai familiari della moglie e specie dal padre, ma non dava a vederlo, si comportava educatamente e non mancava di accompagnare Juanita ai concerti del caffè. Esteban non s’interiva per niente, quel genero gli rimaneva indigesto e di tanto in tanto gli scappavano battute piuttosto spiacevoli anche alla presenza di Diego che fingeva indifferenza e talvolta persino sorrideva con l’aria di chi sorvola su una petulanza. Perdette però la pazienza la sera in cui, stando a cena insieme ai familiari, si discuteva del problema che cominciavano a porsi: era trascorso un anno dal matrimonio e non c’era ancora alcun segnale dell’arrivo di un bambino. Forse era tempo, suggerì Morayma, che Juanita e Diego si sottoponessero alle indagini del caso e così cercare i rimedi, e lui, il genero, subito disse: ho già sollecitato Juanita ad andare da un ginecologo, ma lei non si smuove. A questo punto, Esteban non si tenne dallo sputare il rospo che gli stava nello stomaco: e perché mai deve cominciare lei ad andare dai medici, sana com’è e con tutto in regola, e non tu che sei afflitto da mollezza e avrai gli spermatozoi fiacchi?
Diego si alzò da tavola, trascinò la moglie per un braccio, disse buona sera e uscirono.<br />
Preoccupate, Estèla e la moglie insisterono perché Esteban rimediasse chiedendo scusa al genero e lui, dopo qualche minuto di resistenza, crollò per non addolorarle.
Andarono in auto e arrivarono poco dopo, gli aprì Juanita piangente, il padre l’abbracciò e le disse di chiamare il marito perché voleva scusarsi. E lo fece, anche con toni sinceri perché teneva molto alla serenità della figlia. Diego accettò le scuse, ma da allora la sua presenza in casa dei suoceri e ai concerti non fu più costante come prima. La pace, però, pareva fatta.<br />
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Estéla ha sempre amato passeggiare ed era su uno dei sentieri del suo quartiere costeggiati da agavi e fichi d’india il pomeriggio che vide un giovane chino su un cespuglio dove stava miagolando un gattino bianco e si fermò a guardarlo. Il giovane, vedendola, si sollevò ed ebbe un’esclamazione: che bella sorpresa incontrarla doña Estéla! L’ho ascoltata ieri sera al caffè, aggiunse con un sorriso radioso. Poi, tornando a chinarsi prese il gattino e mostrandoglielo: guardi che meravigliosi occhi verdi-azzurri ha questa creatura, sarà andata in giro e si è perduta, oppure qualcuno l’ha abbandonata, vuole prenderla lei? Io abito a Siviglia e non vi ritorno prima di alcuni giorni.<br />
Certamente, rispose lei porgendo le mani, ho altri due gatti e lo adotteranno. Nell’atto in cui lui glielo porse, i loro occhi s’incontrarono e lei percepì un brivido alla schiena, una sensazione strana e bella. Nel frattempo, il giovane si presentava, diceva di chiamarsi Horacio, di trovarsi in Granata perché stava organizzando in una campagna vicina un nuovo allevamento di cavalli, lavoro di cui a Siviglia si occupava con i suoi familiari, di antica provenienza gitana, e parlando si accompagnava a lei che tornava verso casa per accudire al gattino. Lo invitò a entrare, andò in cucina a prendere un pezzetto del pollo preparato per i gatti di casa, lo mise in un piattino e lo depose sul pavimento davanti al piccolo che, affamato, lo mangiò subito. Poi sedette e invitando il giovane a farlo anche lui, prese il gattino, lo poggiò sulle gambe e, carezzandolo, disse che gli avrebbe fatto la cuccia in un cesto. Entrarono i due di casa che alla vista dell’ospite usurpatore delle tenerezze della padrona, s’immobilizzarono arruffando il pelo e scapparono. Non si preoccupi, disse Horacio, si sono ingelositi, ma gli passerà presto. E aggiunse che a casa sua c’erano ben sei gatti, quattro dei quali raccolti in tempi diversi per la strada, e continuò a raccontare episodi della sua consuetudine con i gatti e i cavalli rivelando una sensibilità che Estéla notò con piacere. Poi, lui le disse che la conosceva già di fama come quasi tutti a Siviglia e la sera prima, dopo il concerto, non aveva osato avvicinarla per congratularsi a causa della propria timidezza.<br />
Congedandosi, le chiese se aveva piacere che tornasse. Sì, rispose lei, e in quell’attimo percepì un brivido alla schiena.<br />
Uscito lui, si sentì stremata per la rivelazione arrivatale improvvisa in quell’istante. Era arrivata a venticinque anni rimuovendo attrazioni e simpatie per la determinazione di essere una donna indipendente da tutele di ogni sorta e quanto le stava succedendo la preoccupò. Si stese sul letto pensando di non dover soccombere a un’emozione immotivata, ma non riuscì a togliersi dagli occhi quel bel giovane gitano, elegante nella figura e amabile nei modi.<br />
La sera del concerto della successiva settimana, appena arrivata al locale, lo vide sulla soglia ed ebbe un moto di felicità che lui dovette cogliere perché nel prenderle la mano facendo l’atto di baciarla, le mormorò grazie. Da allora, per un paio di mesi, fu sempre presente ai concerti finché una sera, accompagnandola a casa, le disse di amarla e le chiese di sposarlo. Lei stava per rispondere di sì, e invece gli parlò delle sue perplessità sul matrimonio, del suo bisogno di essere una donna libera. Lui, la mano sul cuore, giurò che in nessun modo, in nessuna circostanza, avrebbe tentato di influire minimamente sulla sua libertà. I genitori fecero il resto, sollecitandola ad accasarsi perché era tempo e aveva incontrato l’uomo adatto a lei. <br />
Fu lo sprone che desiderava. Si sposarono e Horacio accettò che si stabilissero nella casa natale di Estéla. Era il settembre del 1943, la Spagna e il resto del mondo senza pace. Impossibile persino la speranza che potesse un giorno arrivare.
Qualche mese dopo Estéla rimase incinta ma continuava a cantare, la gravidanza non le procurava fastidi e il canto e la musica davano sollievo a lei e a chi ascoltava. Ma una sera ecco irrompere alcuni poliziotti che ordinarono al pubblico di uscire immediatamente e quindi il graduato tra loro lesse un foglio in cui si contestava a Esteban e al proprietario del locale, di svolgere attività sovversiva contro la nazione e ai due orchestrali, fratelli di Morayma, di esserne complici. I quattro uomini non ebbero neanche il tempo di aprire bocca, che i gendarmi li ammanettarono e li portarono via nel cellulare militare.<br />
Terrorizzati, Morayma Estéla e Horacio si avviarono al centro per raggiungere l’abitazione dell’unico avvocato disponibile a correre il pericolo di difendere i perseguitati politici. Il legale li ricevette nonostante l’ora tarda, li ascoltò e disse che, dati i metodi polizieschi in atto, gli accusati non sarebbero stati interrogati alla presenza di un avvocato e sarebbero stati pressati perché ammettessero di essere colpevoli. Egli, però, l’indomani sarebbe andato al carcere e avrebbe chiesto di parlare con i suoi assistiti. <br />
Tornarono a casa a notte fonda col cuore più nero del buio pesto che c’era nelle vie della città per favorire i pestaggi dei renitenti al regime. Erano strade deserte, nessuno si azzardava a uscire senza un grave motivo, e s’imbatterono in una camionetta della polizia che sbucò improvvisa a una svolta, li abbagliò, si fermò e gli agenti chiesero che cosa cercassero a quell’ora. Horacio gli rispose che erano andati a trovare un avvocato, spiegandogli quanto accaduto ai loro familiari, certamente vittime, aggiunse, di una calunnia. Erano quattro, i poliziotti, e risero all’unisono, una risata così orrenda che a Estéla evocò quella che emette lo sciacallo quando sente odore di cadavere. Poi uno di loro, asciugandosi la sbavatura prodotta dal riso, disse: non serve, l’avvocato, se sono innocenti come dite, saranno rimessi in libertà.<br />
La morte fu la libertà per mio padre! Esclama Estéla con voce incrinata e sosta un attimo, lo sguardo oltre il balcone, all’orizzonte. Poi beve un sorso d’acqua e riprende il filo. <br />
I carcerati furono interrogati senza che fosse ammessa l’assistenza del difensore, il quale ebbe l’autorizzazione a incontrarli soltanto dopo alcune settimane uno per volta e nessuno di loro stava bene, difatti gli dissero di essere stati torturati, ma loro avevano continuato a dichiararsi innocenti. <br />
Quando finalmente la moglie e le figlie di Esteban ebbero il permesso di vedere i prigionieri, si terrorizzarono per lo stato in cui erano ridotti. Estéban era pelle e ossa e aveva sul collo segni come di bruciature di cicca, ma al loro cenno interrogativo alzò lievemente le spalle a significare che era una cosa da niente.
Estéla era quasi al terzo mese di gravidanza e quel giorno, appena arrivata a casa, ebbe una forte emorragia. Il marito l’adagiò sul sedile posteriore dell’auto e la condusse subito in ospedale ma non ci fu nulla da fare, il bambino era perduto. Rimase a letto per la sopravvenuta anemia, afflitta anche per le condizioni della madre che, caduta in depressione dopo la carcerazione del marito, peggiorava sempre. Le curava Juanita aiutata dalle vicine di casa, mentre Diego e Horacio andavano e venivano dall’avvocato cercando di sapere quando sarebbe stato possibile che qualcuno della famiglia fosse ammesso a visitare di nuovo i prigionieri, e quando sarebbe stato celebrato il processo. Niente, neanche l’avvocato riusciva a sapere qualcosa. <br />
Quasi un anno trascorse nell’attesa della data del processo, finché un giorno arrivò a casa loro un messo portando una comunicazione della direzione carceraria: Esteban aveva avuto un infarto fulminante e i familiari potevamo ritirare la salma all’obitorio il giorno successivo.
Si diedero da fare in cento modi per provocare un’inchiesta e tutte le autorità, ministro della polizia in testa, dapprima fecero finta di niente e poi risposero con le minacce. <br />
Morayma non si alzò più dal letto, la nutrivano con la sonda e rimetteva tutto, cibo e medicine. Se ne andò anche lei.
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Estéla e Juanita resistevano stremate nell’atroce dolore e nell’attesa della celebrazione del processo agli zii e all’amico Ramón. Sembrava balenare la flebile speranza che fossero liberati, poiché si erano dichiarati innocenti anche sotto tortura, e c’era anche la disponibilità di alcuni frequentatori dei concerti a testimoniare che nel locale non avevano mai notato nulla di sospetto e mai si era parlato di politica. <br />
Quando finalmente arrivò il giorno del processo, gli imputati protestarono ancora di essere innocenti e i testimoni chiamati dalla difesa fecero le loro dichiarazioni e in buona fede, poiché veramente mai si erano accorti di nulla. Subito dopo, il pubblico accusatore chiese che fosse introdotto il testimone d’accusa tenuto in riserva per risolvere il processo nel modo consueto. Orrore! – esclama Estéla – era Diego, mio cognato. Entrò trascinato da due poliziotti e si abbandonò sulla sedia a testa bassa. Il presidente gli ingiunse di alzarsi e giurare di dire la verità, gli lesse l’articolo del codice penale militare che comminava pene severissime per gli spergiuri e per chi, avendo fatto una denuncia spontanea, poi la ritrattasse davanti al giudice. Juanita ed io eravamo lì, quasi di fronte a lui, e non volevamo credere ai nostri occhi. Lui cercò di alzarsi, ma dovettero tirarlo su gli agenti e reggerlo, tenergli la mano sulla Bibbia e lui lesse, no, farfugliò e poi, alla domanda del presidente di riaffermare quanto aveva esposto nella denuncia, si lasciò ricadere sulla sedia e raccontò a testa bassa, tirando su col naso, ma con dovizia di particolari. Disse che qualche volta, in casa, il suocero aveva espresso, davanti a lui, la propria avversione al regime, ma nel locale dei concerti non l’aveva mai sentito parlare di politica, e neanche gli altri due orchestrali e il proprietario, solo aveva notato che si scambiavano furtive occhiate d’intesa tra loro quattro quando entrava qualcuno della polizia. Una sera, finito il concerto e usciti gli spettatori, lui si era soffermato con i familiari a bere un bicchiere e aveva visto il suocero dirigersi alla toilette. Anche lui aveva bisogno di andarci e vi si diresse dopo un po’. Arrivato davanti alla porta, vide uscire il suocero con un pacco sotto il braccio avvolto in carta di giornale e si meravigliò perché era entrato senza niente. Ovviamente, non poteva averlo preso che nel bagno e Diego, entrato, guardò dappertutto per capire dove poteva essere stato messo. Niente, c’erano soltanto alcune piccole mensole con oggetti da toilette ma gli parve strano che ci fosse su una parete del bagno quel quadro raffigurante una scena di corrida e istintivamente lo spostò. Gli apparve un mucchio di mattonelle poste davanti a una sorta di buco, le rimosse notando che lo spazio evidenziato poteva contenere un fagotto simile a quello con cui era uscito il suocero. I suoi sospetti si rafforzarono, pertanto la sera del concerto successivo andò a verificare, vide un pacco avvolto in carta da giornale e l’aprì, c’erano dei fogli ciclostilati, ne prese uno, l’infilò in tasca e rimise tutto a posto. Lo lesse a casa, era un manifesto di propaganda sovversiva. Non dormì per tutta la notte, non sapeva che fare perché il colpevole era il padre di sua moglie, ma la mattina decise di portare il foglio alla polizia e denunciarlo per fermare quell’attività dannosa, secondo lui, al governo e al paese, di cui era sicuramente colpevole anche il proprietario del locale perché sarebbe stato impossibile praticare quel buco a sua insaputa. Dichiarò di non avere prove sugli altri imputati, ma di aver capito che fossero complici avendoli visti più volte, all’uscita dal locale, inforcare una bicicletta con una borsa a tracolla e dirigersi in un senso diverso della strada di casa. Evidentemente erano i corrieri dei messaggi.
L’ipotesi di Diego fu accolta dai giudici che condannarono i tre a dieci anni di carcere con l’obbligo dei lavori forzati. Dopo un faticoso periodo in un cantiere edile in cui abbondava la manodopera dei detenuti, il direttore del carcere decise che era più conveniente valersi delle loro competenze e assegnò i due orchestrali come maestri di musica a un collegio per figli di militari e agenti di polizia e Ramón al bar annesso al penitenziario.
Fu la loro salvezza: i due musicisti, sia pure chiusi nel cellulare, uscivano dal carcere tre volte a settimana e trascorrevano delle ore in ambiente accogliente e tra adolescenti che li rispettavano; Ramón stava dalla mattina alla sera nel bar frequentato sì da agenti di polizia, ma non tutti privi di senso di umanità.
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Estéla ha la fronte imperlata di sudore e va a rinfrescarsi il viso, io sono quasi pentita d’averla indotta a ricordare episodi tanto terribili, ma lei torna a sedersi e continua, dicendo che lo fa perché è giusto che si sappia fin dove può arrivare una persona malvagia mascherata da agnello.
Diego aveva denunciato il suocero per vendicarsi delle sue battute offensive, così aveva dichiarato alla moglie, quando lei, disperata, senza potersi dare pace, lo coprì d’insulti prima di andarsene da casa, ingiungendogli di non comparire mai più davanti a lei. E lui sparì dalla città e dal circondario non potendo più andare in giro senza che qualcuno non gli lanciasse un’ingiuria sottovoce. Gli era andata male. Secondo la ricostruzione della vicenda per opera dell’avvocato difensore, Diego, nel fare la delazione, aveva chiesto che il suo nome non fosse svelato, così sarebbe rimasto con la moglie ignara e non sarebbe stato esposto al pubblico disprezzo; e la polizia, convinta di riuscire a estorcere agli imputati una confessione, gliene aveva dato assicurazione ma, costato che gli accusati resistevano alle torture e continuavano a dichiararsi innocenti, lo teneva d’occhio per utilizzarlo comunque in caso di necessità. E quando il difensore chiese l’ammissione di testimoni a discolpa, a Diego fu imposto di tenersi a disposizione della polizia e il giorno del processo fu condotto in tribunale e tenuto chiuso in un ambiente da dove fu tratto e introdotto a forza in aula dopo le reiterate proteste di innocenza degli imputati e le testimonianze a loro favore.
Dopo anni, un amico di Estèla la informò di aver saputo che lavorava come magazziniere nello spaccio militare di un luogo al nord del paese, ma gli abitanti lo schivavano per il fondato sospetto che continuasse a essere un informatore della polizia. E sempre solo, torvo e diffidente, camminava guardandosi continuamente alle spalle fino a fare un mezzo giro su se stesso, come i cani quando tentano di prendersi la coda in bocca.
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Dopo la rivelazione dell’infamia del marito, Juanita era tornata a vivere nella casa paterna insieme alla sorella e dopo alcuni anni ebbe il conforto di ritrovare la propria creatività e di disegnare per un’industria di ceramiche artistiche fino a quando, quasi ottantenne, lasciò questo mondo. Estéla, come se le sue corde vocali non potessero più intonare alcuna armonia, aveva smesso di cantare rifiutando le proposte di vari locali andalusi di flamenco. Riusciva soltanto a trovare un po’ di sollievo leggendo poesia e quando si recava con il marito nel campo dell’allevamento dei cavalli. Lì, un giorno, assistendo alla nascita di un puledrino, pianse al ricordo della propria creatura perduta. Allora Horacio l’abbracciò, le disse di desiderare che lei mettesse al mondo un loro bambino nella speranza che il mondo diventasse umano.
E il bambino arrivò, lo chiamarono Sirio, come la bianchissima stella che brilla più di tutte nelle notti invernali dell'emisfero boreale. In gennaio è sempre situata in un punto del cielo riquadrato da una finestra della casa di Estéla e lei, aspettando il bambino, la guardava come fosse un buon auspicio e pensava che se fosse nato un maschio l’avrebbe chiamato con quel nome derivato dal greco antico, che significa splendente, ardente, bruciante.
Nacque Sirio e la sua presenza infuse alla madre la forza di ricominciare il proprio lavoro che non le mancò, contesa com’era da tutti i locali di flamenco, e quando gli zii e Ramòn ebbero scontato la pena, il caffè del Sacromonte riaprì, furono ingaggiati altri due musicisti e l’attività concertistica ricominciò con successo, sempre nell’attesa che un miracolo facesse risorgere la Spagna dalle ceneri.
Sirio cresceva bene, gli piaceva studiare e quando giunse il momento di iscriversi all’università scelse di studiare medicina; Horacio continuava a occuparsi dei suoi cavalli e in casa la pace c’era, e l’armonia, il conforto degli affetti a lenire il dolore per la perdita delle persone care.
Il tempo passava e la dittatura sopravviveva al crollo del fascismo italiano e del nazismo, come se l’odio della stragrande maggioranza della popolazione le fosse un alimento corroborante, ma finalmente giunse l’ora in cui il caudillo schiattò, dopo giorni di atroce agonia appeso a un gancio nel sacco dove l’avevano messo, sostenuto in posizione verticale con delle stecche, per farlo durare più a lungo possibile. Era il 20 novembre del 1975, l’inizio della rinascita della Spagna.
La ricostruzione economica, morale e culturale procedette alacremente e la voglia di vivere era tale che le persone affollavano i locali notturni fino all’alba.
Da allora, durante il tempo in cui continuò a cantare, Estéla, uscendo dal locale, guardava lo schiarirsi dell’orizzonte sempre pensando ai cari genitori e a tutti quelli che furono privati per sempre della luce dalla tirannia che prese in ostaggio la Spagna per trentasei anni.
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Chiude il racconto dicendo di aspettare serenamente che il suo soffio vitale si confonda con l’energia dell’universo, come quello dei suoi genitori, di Juanita e di Horacio. Intanto, ha il conforto della vicinanza del figlio e le sue giornate sono allietate dalle frequenti visite di nipoti e pronipoti e dall’arrivo di un nuovo bambino per il quale è diventata trisavola. Poi, fissandomi intensamente, cita Montale, uno dei suoi poeti preferiti:
“… nulla paga il pianto del bambino
a cui è sfuggito il pallone tra le case.”
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<i>Roma, novembre 2012
Sara Zanghì</i>
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<span style="font-size: xx-small;">Note
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<span style="font-size: xx-small;">1 Chiamato così per l’antica abazia, ancora esistente, edificata sulle rovine d’una moschea musulmana.
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<span style="font-size: xx-small;"><br /></span>
<span style="font-size: xx-small;">2 Pettinati con il mio pettine/ i miei pettini sono di zucchero/ chi si pettina con i miei pettini/ si succhia persino le dita.
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<span style="font-size: xx-small;"><br /></span>
<span style="font-size: xx-small;">3 Verde ti voglio proprio verde/Verde vento. Verdi rami. La barca sul mare / e il cavallo sulla montagna.
</span>laura-cihttp://www.blogger.com/profile/12587159250603555673noreply@blogger.com0